
Il lavoro e la solidarietà sono due temi fondamentali nella Bibbia, tanto che se si volesse eliminare dalla Sacra Scrittura questa dimensione… non resterebbe neppure la Bibbia.
Mi spiego meglio. Lavoro e solidarietà sono ciò che lega l’uomo alla natura e all’altro. Se questa dimensione orizzontale si togliesse dalla Bibbia, il messaggio biblico verrebbe meno. Può sembrare assurdo, ma se dalla Bibbia si togliessero gli angeli, la Bibbia rimarrebbe tale e quale. Ma se si toglie la dimensione che lega l’uomo agli altri uomini e al mondo della natura, si snaturerebbe completamente. Vediamo insieme questi due aspetti.
Una premessa: l’antropologia di Dio
Faccio una premessa su questo tema. La Bibbia non è solo l’espressione di una teologia = ciò che l’uomo deve credere di Dio, ma contiene anche una antropologia, l’antropologia di Dio, cioè ciò che l’uomo è e dovrebbe essere agli occhi di Dio. Nella Bibbia c’è quel che dobbiamo sapere di Dio, ma anche quel che Dio pensa dell’uomo, sia come singolo, sia come comunità. Troviamo insomma disegnata nella S. Scrittura tutta una antropologia (una visione dell’uomo) ed anche una sociologia (visione della società) che dovremmo attuare. È ciò per cui molte persone hanno impegnato la propria vita.
Vediamo dunque che cosa questa antropologia e questa sociologia ci dicono del lavoro e della solidarietà che dovrebbe contraddistinguere la comunità degli uomini. È un tema trasversale che percorre tutta la Scrittura. Dovrò fare delle scelte.
Il lavoro

a.- Il lavoro nella visione greco-romana
La visione biblica del lavoro dell’uomo è agli antipodi della visione che abbiamo ereditato dai nostri padri greci e romani. Mi spiego subito: nella Bibbia, il lavoro costituisce la dignità dell’uomo. Nel mondo greco-romano, il lavoro è indegno del vero uomo: è delle bestie e degli schiavi – e dei poveracci che devono pur campare.
Non mi fermo su questo, mi limito a dire che il pensiero greco-romano identifica l’uomo con la sua anima, o spirito, o mente, come volete chiamarla, con la componente intellettuale insomma, mentre la componente materiale, il corpo, è un optional di cui si farebbe volentieri a meno. È un impaccio per la vita intellettuale, l’otium, opposto al negotium: Σῶμα – σῆμα. Sōma – sēma: “Il corpo (è) tomba (dell’anima)”. Questa frase di Pitagora, citata da Platone nel Gorgia, esprime il forte dualismo anima – corpo, che ha per effetto lo svilimento di tutto ciò che è materiale, perciò “servile”.
Quando l’annuncio cristiano si è contestualizzato nell’Occidente, la materia, il corpo con le sue opere, ne è uscita male: le arti liberali, cioè quelle dello spirito, furono riconosciute come le più degne, mentre sulle arti meccaniche, il lavoro manuale, gravò un’ombra negativa. Addirittura, Ugo di San Vittore propose una stramba etimologia, secondo cui la parola “meccanica” sarebbe derivata da moechus, cioè adultero (moechor = commettere adulterio; mentre viene semplicemente da mechané / macchina dalla radice mag = crescere). Egli riconosce però che la scientia mechanica svolge una funzione medicatrice dei mali introdottisi con il peccato dei progenitori (Liber excerptionum, I, 2-4); esiste perciò uno spazio per il corpo.
Mi permetto di ricordare come nei Promessi Sposi il duello ingaggiato per motivi di onore dal nobile cui il giovane Ludovico (futuro pentito Padre Cristoforo) non vuol cedere il passo inizi proprio con l’insulto:
«Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini».
Questa concezione generalmente negativa del lavoro manuale non ha impedito ai monaci di salvare l’Europa dalla barbarie non solo salvandone la cultura con l’arte degli amanuensi, ma anche salvandone la coltura con il disboscamento e l’agricoltura. Ora et labora è lo spirito della tradizione benedettina… Salvando, quindi, il valore del lavoro manuale.
b.- Il lavoro nella Bibbia
Se però andiamo a monte, troviamo che Israele non conosce questo dualismo. La sua è un’antropologia perfettamente integrata: il corpo è parte irrinunciabile dell’identità umana.
Ne deriva una concezione completamente diversa del lavoro: s’intende, il lavoro manuale, l’unico conosciuto nell’antichità.
Ne abbiamo subito un saggio nel racconto delle origini del cap. 2 di Genesi (v. 15): il Signore Iddio pone l’umanità (adam) nel giardino perché lo lavori e lo custodisca. Il lavoro costituisce la dignità originaria dell’umanità, non è una disgrazia che gli viene appioppata. Nel racconto biblico, sarà poi la caduta originaria a frantumare, deformare il rapporto dell’uomo con la terra ed a rendere penoso il suo lavoro e scarsi i suoi frutti; ma in principio non doveva essere così.
E perché l’uomo non si renda schiavo del lavoro, Dio gli dona il sabato. Per capire la funzione del lavoro, bisogna capire la funzione del settimo giorno, quello del riposo.
Israele e il sabato
Un rabbino moderno, Isidor Grunfeld, dice a questo proposito:
«Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: Basta. L’attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente egli cessò la sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazione da lui attuata secondo la sua volontà.
Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della sua libera creazione del mondo. L’ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell’uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L’uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbath, l’ebreo diviene, come dissero i nostri saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso».
Il giorno festivo dà senso al lavoro
È paradossale che per comprendere la concezione biblica del lavoro si debba ricorrere alla concezione biblica del giorno festivo. Ma è il giorno festivo a dare senso al lavoro.
Lavoro e riposo si integrano a vicenda rafforzando ognuno il proprio valore. Il giorno festivo fa capire che il lavoro non è fine a se stesso, non deve schiavizzare l’uomo (alienazione), ma deve essere al suo servizio per far sì che diventi più uomo. Il giorno lavorativo fa capire che l’uomo non è un trastullo che si può bamboleggiare nelle mani di Dio, ma ha la piena responsabilità sul creato e sulla propria vita e che la deve dirigere al suo buon fine. San Paolo dirà: chi non lavora non mangia. Ma il Talmud dice: chi non insegna un lavoro manuale al proprio figlio è come ne facesse un brigante (Talmud babilonese, Qiddushin 29).
Il lavoro fa dell’uomo un collaboratore dell’opera divina, e contribuisce a dare un senso alla sua esistenza, purché non divenga un idolo; è il settimo giorno ad impedirlo.
Gesù e il lavoro

Un rabbino doveva anche svolgere un lavoro manuale: chi il falegname, chi il taglialegna, o il sarto… purché fosse in condizioni di purità rituale. San Paolo era tessitore di tende, ed ha parole dure per i tessalonicesi che si gingillano di qua e di là aspettando la fine del mondo (1Ts 2,9; 4,10 ss.; 2Ts 3,10). Gesù era falegname, e questo non costituiva un’onta, ma un onore: è conferma che veniva considerato un rabbi, un maestro, a tutti gli effetti (“il falegname”: Mc 6,3; Mt 13,55).
Della spiritualità della famiglia di Nazareth il lavoro fa parte integrante, ed è indizio non di miseria o di ignoranza, ma di dignità nello svolgere un ruolo sociale e religioso. Certamente, quando Gesù diviene un maestro itinerante, deve lasciare il suo lavoro, così come lascia la vita di famiglia per abbracciare una scelta radicale di appartenenza al Regno di Dio in una forma che Israele non prevedeva.
Nella sua predicazione, Gesù attinge volentieri le sue immagini dal mondo del lavoro: del contadino, del pastore, del pescatore (le attività principali della Palestina dell’epoca), ma anche del mercante, del locandiere, della buona massaia… e cita gli umili attrezzi di questi mestieri, la rete da pesca, la barca, l’aratro, la falce, la macina da mulino, il moggio, l’ago. Non c’è niente di troppo piccolo ed umile che non possa entrare nel grande disegno del Regno.
Il lavoro è una maledizione?
È vero che in Genesi 3 troviamo parole negative sul lavoro:
17 Con dolore ne trarrai il cibo (‘izzabhon = stessa parola che indica le doglie della donna)
per tutti i giorni della tua vita.
18 Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l’erba campestre.
19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane...
Preciso innanzi tutto che male-dire, biblicamente, non ha il senso di scagliare una condanna affinché il male piombi sul maledetto, ma ha il senso di «dire il male», rivelare il male che è presente in lui e che gli causerà delle sciagure. Non è Dio che vuole la disgrazia dell’uomo; è l’uomo che se l’è causata, perché spezzando l’amicizia con Dio ha anche spezzato l’amicizia con la natura che gli diviene nemica.
Ora, il negativo non è il lavoro, ma le doglie con cui l’uomo dovrà trarre il pane dalla terra, con sudore, e magari ottenendo solo spine e triboli. ‘Ezebh sono le doglie materne: con la stessa pena con cui la donna mette al mondo un figlio, l’uomo fa partorire frutti alla terra. La natura, da sorella, è divenuta nemica, travolta dal peccato dell’uomo. È il peccato a disumanizzare il lavoro, a renderlo alienante (non per niente Carlo Marx era ebreo). Non solo perché lavorare la natura costa fatica, ma anche perché i rapporti umani si sono distorti e da fraterni sono divenuti prevaricanti o insinceri.
A questo punto, bisognerà cogliere quell’aspetto di solidarietà che torna a rendere il lavoro umano e non animalesco. La storia biblica non è la storia di individui, è un grande affresco che riguarda tutto il popolo.
(Continua)