Il grido di Giobbe risuona nell’umanità. Siamo al quinto giorno di guerra.
Intanto Giobbe alza il suo grido…
Stiamo cercando risposte in un libro, quello di Giobbe, che sembra porre solo domande. Abbiamo lasciato il nostro Giobbe in pace, a godersi la nuova vita con la sua famiglia e le sue ricchezze (QUI). Ma questo è l’happy end della cornice narrativa, il primo quadro del libro di Giobbe, quello della sua fede senza cedimenti e della sua pazienza senza fine. Quello della sofferenza come prova transitoria che mette in luce ed affina la virtù dell’uomo. L’interno del libro confermerà questo quadro?
L’articolazione
Il libro di Giobbe è molto complesso e abbastanza lungo (42 capitoli). La struttura definitiva dell’opera corrisponde presso a poco alla stratificazione che si è gradatamente delineata. Procede a cerchi concentrici.
Primo quadro
Prima parte: la cornice narrativa (cap. 1-2 che troveranno una conclusione nel cap. 42) con il suo ottimismo da happy end; prologo in prosa, basato sul concetto di sofferenza come prova della fede. L’abbiamo già preso in esame. È il dietro le quinte: Giobbe non sa tutto questo, ma il lettore sa in anteprima che la grande sofferenza è solo una prova. È il cerchio esterno, di colore celeste. Nell’immagine appare spezzato, ma nel testo, ripreso nel cap. 42, si chiuderebbe perfettamente: tutto torna, la sofferenza dell’uomo era solo provvisoria e funzionale ad una maggiore ricompensa. Peccato che non sia sempre così. Peccato che la guerra dimostri che la sofferenza degli innocenti è schiacciante.
Secondo quadro
Seconda parte: dialogo fra Giobbe e gli amici (cap. 3-27), articolato in 3 cicli di 3 discorsi ciascuno, ognuno con la corrispondente risposta di Giobbe, secondo il tipico procedimento semitico di riprese, espansioni, digressioni. È il secondo cerchio, quello arancione, ed è giusto che sia spezzato: non si chiude su niente.
I discorsi dei tre amici persistono nella loro ossessiva teoria retributiva (sofferenza come castigo del peccato: 4 – 25). Qualcuno ha notato che il discorso di Elifaz ha gli accenti di un profeta, Bildad si esprime come un giurista, Sofar parla come un saggio. Tutti costoro, comunque, rappresentano la saggezza più arcaica e restano fermi al concetto tradizionale di retribuzione, che Giobbe non riesce ad accettare.
Il cuore del libro, la parte più estesa, si presenta, quindi, come una contestazione vigorosa della rigidità di questa dottrina, dei luoghi comuni, delle spiegazioni facili. Ogni volta, segue l’audace messa in crisi da parte di Giobbe di tutte le teorie fino a citare in giudizio Dio come responsabile del male inflitto all’uomo (3-31). Questo secondo quadro del dramma rimane aperto sul grido di Giobbe: «L’Onnipotente mi risponda!» (31,35).
Seguirà una terza parte con l’intervento del giovane Elihu (teoria pedagogica della sofferenza: cap. 32-37), una quarta parte con la sconcertante risposta di Dio (cap. 38-41)…
Quadro secondo: Giobbe e i tre amici
Siamo, quindi, alla seconda parte e al secondo quadro: il dialogo poetico di Giobbe con i tre amici venuti per confortarlo. In realtà, di conforto ne riceverà poco, e il suo grido sembra risolversi in un nulla di fatto. Esprime bene la grande domanda dell’uomo: perché?
Il lamento di Giobbe
Le parole tragiche di Giobbe contestano i luoghi comuni, le spiegazioni facili, le dottrine rigide. Tanto è il suo dolore che l’unica sua aspirazione diviene la morte, la grande livellatrice che pone fine ad ogni disparità sociale, per re e governanti, nobili e ricchi, schiavi e prigionieri tanto quanto padroni e aguzzini, piccoli e grandi. E allora, perché vivere? «Perché dar la luce a un infelice e la vita agli amareggiati nell’animo, a coloro che attendono la morte che non viene, e si affannano a ricercarla più di un tesoro?» (3,20-21).
Gli amici che intervengono a confortarlo falliscono lo scopo. Prendiamo ad esempio la parola di Elifaz (Il mio Dio è oro fino): «Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie» (4,7-8).Tutti gli interventi dei tre amici sono infinite variazioni sullo stesso tema: la sofferenza è il castigo del peccato. Per farla cessare basta convertirsi.
Inutili saranno le proteste di Giobbe: i tre amici non faranno altro che girare intorno alla stessa argomentazione, la teoria retributiva della sofferenza. Se la concezione della sofferenza del giusto come prova poteva avere un fondo di verità, questa è palesemente assurda. Giobbe protesta con veemenza contro gli amici, «consolatori molesti» (16,2), ma anche e soprattutto contro Dio che vessa in tal modo gli uomini.
Il lamento di Giobbe abbraccia tutta l’umanità
E Giobbe non parla solo per sé. Il suo grido è il grido immenso dell’umanità davanti a Dio:
7,1 «Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?
2 Come lo schiavo sospira l’ombra
e come il mercenario aspetta il suo salario,
3 così a me son toccati mesi d’illusione
e notti di dolore mi sono state assegnate.
4 Se mi corico dico: «Quando mi alzerò?».
Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba».
È in questione la stessa condizione umana, di cui Giobbe è un limpido esempio.
Questa accusa nei confronti di Dio è così forte, audace, che a volte assume aspetti di contesa giudiziaria, di “lite” o processo intentato contro di lui. Giobbe non viene mai meno alla sua fede, non dubita mai che Dio sia: gli sembra nemico, però sempre si rivolge a lui:
9,16 «Anche se rispondesse al mio appello,
non crederei che ha ascoltato la mia voce,
17 lui, che mi schiaccia nell’uragano
e moltiplica senza ragione le mie ferite.
18 Non mi lascia riprendere fiato,
anzi mi sazia di amarezze.
19 Se si tratta di forza, è lui il vigoroso;
se si tratta di giudizio, chi lo farà comparire?
20 Anche se fossi innocente, il mio parlare mi condannerebbe;
se fossi giusto, mi dichiarerebbe perverso.
21 Sono innocente? Non lo so neppure io;
detesto la mia vita.
22 Però è lo stesso, ve lo assicuro,
egli fa perire l’innocente e il reo!».
La crisi della fede nella giustizia di Dio
Sembra inutile essere giusti dinanzi a Dio, si sfoga Giobbe, perché Dio schiaccia tutti nello stesso modo. Si oscilla, nelle risposte di Giobbe, fra manifestazioni di fiducia e constatazioni che forse questa fiducia era mal riposta. Giobbe non ha perso la sua fede in Dio; ha perso la sua fede nella bontà e giustizia di Dio. Nel suo sfogo Giobbe vede Dio come un nemico che lo aveva creato con un atto di amore e di benevolenza, eppure premeditava che Giobbe sarebbe finito nei tormenti.
14,18 «Ohimè! come un monte finisce in una frana
e come una rupe si stacca dal suo posto,
19 e le acque consumano le pietre,
le alluvioni portano via il terreno:
così tu annienti la speranza dell’uomo».
19,7 «Ecco, se grido contro la violenza, non ricevo risposta;
se invoco aiuto, non mi si fa giustizia.
23,15 Perciò sono atterrito al suo cospetto,
se ci penso, provo spavento.
16 Dio fa smarrire il mio cuore
e l’Onnipotente mi atterrisce.
24,12 Dalla città sale il gemito dei moribondi
e i feriti chiedono aiuto,
ma Dio non presta attenzione alla preghiera».
Una situazione di stallo
Eppure, c’è questa caparbietà, questa cocciutaggine di Giobbe che non si arrende, e non vuol lasciar perdere Dio, questo Dio che sembra volerlo uccidere, ma al quale Giobbe si attacca tenacemente.
27,5 «Lungi da me che io vi dia ragione;
fino all’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità.
6 Terrò fermo alla mia innocenza, senza cedere;
la mia coscienza non mi rimprovera uno solo dei miei giorni».
Naturalmente, questa coscienza di innocenza è relativa, perché nessun uomo può considerarsi integralmente giusto davanti a Dio, però sostiene Giobbe nei confronti dell’empio, che schiaccia i deboli, opprime l’orfano e la vedova, e che tuttavia Dio non punisce: sembra piuttosto punire coloro che sono di retto comportamento.
Questa ampia sezione si sospende in una situazione di stallo: ognuno continua a ripetere le proprie convinzioni, gli amici quella tradizionale della sofferenza come punizione dell’iniquità, Giobbe la sua protesta di innocenza e la sua accusa di ingiustizia nei confronti di Dio. La partita si chiude in parità, zero a zero. Nessuno ha segnato un vantaggio sull’altro, e Dio tace.
No, non abbiamo ancora ricavato un messaggio utile da questo secondo quadro del libro di Giobbe, se non la spietata sincerità con cui il protagonista accusa Dio di essergli inspiegabilmente nemico; il suo grido incessante che vuole a tutti i costi una risposta.
(Continua…)