Lettura continua della Bibbia. Luca: il figlio prodigo… e il figlio gretto (15,11-33)

Il figlio prodigo
Il figlio prodigo. Di Jacob Jordaens (1593-1678) – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=114403413

Quanto alla parabola di quello che viene comunemente detto il figlio prodigo (15,11-33), diciamo intanto in sintesi che il peccato del figlio minore è rifiutare di essere figlio e pretendere di essere padrone di se stesso. È la tentazione del serpente originario: “Sarete come dèi, conoscendo il bene e il male”). Ma c’è anche il peccato del figlio maggiore, che è quello di non conoscere di essere figlio, prestando servizio al padre come può farlo un servo o un mercenario.

Il figlio prodigo lontano dalla casa del Padre

Un particolare interessante: le “sostanze” del padre sono chiamate ton bion, etimologicamente “la vita” [quel che serve a vivere]. Il figlio non desidera che il padre si intrometta nella gestione della sua vita, vuole disporne da solo. Il risultato: la degradazione della schiavitù in terra impura, tanto che la più grande ambizione, ormai, è quella di nutrirsi del cibo dei maiali, senza poter giungere neppure a realizzare uno scopo tanto misero.

Il cammino di ritorno è ambiguo: la fame, non la consapevolezza della relazione filiale, spinge di nuovo dal padre il figlio minore, che ambisce solo ad ottenere cibo, in qualità di salariato. “Trattami come uno dei tuoi servi”: si tratta, comunque, di un rimettersi completamente nelle mani del padre, anche senza comprendere la forza del perdono, che sarà invece un perdono totale e incondizionato.

Il Padre che ha viscere di misericordia

La forza del padre sta nelle sue viscere di misericordia: da lontano scruta l’orizzonte aspettando il ritorno, e l’unico suo sentimento è manifestato dal verbo esplanchnísthe, sempre lo stesso che qualifica la compassione di Gesù verso il fanciullo morto, ma anche l’amore del Samaritano.

Anche qui, come nella parabola del Samaritano, sette sono i verbi che esprimono l’atteggiamento di misericordia: prendere la veste, vestire, mettere l’anello e i sandali, portare il vitello, ucciderlo, mangiare e fare festa. L’anello indica l’autorità di una persona, e i sandali la condizione dell’uomo libero, la libertà recuperata; il banchetto rimanda ad un clima di comunione vissuta.

La grettezza del figlio maggiore

Di tutto questo il figlio maggiore ha sempre goduto senza averne consapevolezza: fedele e responsabile, ha vissuto però nella casa del padre come un servo, come un estraneo, e la sua logica è quella della meritocrazia, della osservanza glaciale della legge. Anche il figlio maggiore ha bisogno di comprendere che cosa significhi una relazione filiale – oltre che fraterna (“questo tuo figlio…”).

Possiamo vedere nel contesto originario della parabola, nei due figli, l’antico popolo dell’alleanza, il fratello maggiore, che ha osservato la legge ma non ha compreso il cuore del Padre, e i goîm che, vissuti lontano dal vero Dio fra impurità e misfatti, sono adesso ugualmente chiamati a stare con Lui non ostante il loro passato di infedeltà e di dissipazione. La risposta del padre è una risposta di misericordia anche nei confronti del figlio che è sempre rimasto nella sua casa senza averlo compreso.

Un finale aperto

La risposta definitiva del figlio maggiore non ci è data: la parabola rimane come sospesa su questo finale aperto, e proprio per questo ci provoca: che cosa deciderà il figlio più grande? Entrerà alla festa o rimarrà fuori nel suo ritiro sdegnoso? La conversione del “giusto” può essere più difficile di quella del peccatore, ci dicono i Vangeli. Per essere ricolmati di doni, bisogna essere vuoti… E il figlio prodigo, capirà finalmente che il padre non offre solo cibo e riparo, ma anche amore e comunione?

Oggi la parabola viene chiamata preferibilmente “del Padre misericordioso”, e in effetti il vero protagonista è il Padre. Ma poiché appartiene alla serie delle “parabole dei perduti”, ritengo che sia significativo anche il titolo tradizionale, o forse, meglio, quello di “parabola del figlio perduto”: perché, se si può smarrire una pecora ed anche una dracma, qui il perduto è un figlio, anzi, due, perché evidentemente ci si può perdere anche senza muoversi da casa, il che è anche più grave perché meno percepibile.