Gesù Figlio di Dio, sì, va bene, ci sembra di capirlo, ma chi è il Figlio dell’uomo? È Gesù nella natura umana? Il titolo si presta a fraintendimenti.
Figlio dell’uomo: Marco 9,9-13
Mentre scendevano dal monte [dopo la Trasfigurazione], ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti.
Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti. E lo interrogarono: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?».
Egli rispose loro: «Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di lui».
Ancora una volta ci incontriamo, nel vangelo secondo Marco, con l’espressione «Figlio dell’uomo», che abbiamo già sentito risuonare quattro volte: nell’episodio del paralitico, in cui Gesù proclama che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati (2,10); in 2,28 in cui, accusato di aver lasciato profanare il riposo del sabato dai suoi discepoli, dichiara la signoria del Figlio dell’uomo anche sul sabato; infine, nel contesto del primo annunzio della passione, in 8,31, e nel contesto della parousia, il ritorno glorioso, in 8,38.
Abbiamo così avuto modo di cogliere tale espressione in varie accezioni: come modo di dire idiomatico per indicare l’uomo, o per sostituire il pronome «io» o «egli», ma anche per designare un inviato divino nella sua dimensione di passione e poi di gloria. Anche nel brano che vi proponiamo oggi si parla di Figlio dell’uomo sofferente, disprezzato e risorto. La questione è complessa e dobbiamo fare un passo indietro.
Il senso originario
Inizialmente, figlio dell’uomo (ben adam in ebraico, bar enash in aramaico) è semplicemente un modo di dire semitico per indicare un uomo, così come si parla dei figli dei profeti per indicare i profeti, e del figlio di un’asina per indicare un asino…
Anche nel libro di Ezechiele l’espressione ricorre massicciamente, oltre 90 volte, come appellativo con cui Dio si rivolge al profeta: chiamandolo figlio d’uomo, il Signore mette in risalto la sua fragilità in confronto con l’onnipotenza divina, ma una fragilità rivestita della forza che al profeta viene da Dio per permettergli di portare a compimento la sua missione.
L’apocalittica
È nell’apocalittica che questa espressione comincia ad assumere un valore particolare.
C’è un’unica apocalisse canonica nell’Antico Testamento, ed è contenuta nella parte centrale del libro di Daniele (7-12). Nel capitolo 7, il veggente Daniele nella sua visione notturna scorge prima quattro bestie terribili sorgere dal mare grande, poi giungere con le nubi del cielo «come un figlio di uomo» a cui viene dato un potere universale ed eterno.
L’angelo interprete spiegherà al veggente il senso della sua visione: le quattro bestie rappresentano altrettanti imperi storici, umani ma in realtà «bestiali», disumanizzanti; la figura umana rappresenta invece «il regno dei santi dell’Altissimo», dunque una figura collettiva, umana perché pienamente umanizzante, riferita al popolo dei fedeli.
Tuttavia, la stessa figura, venendo con le nubi del cielo, comporta un’aura di trascendenza che le schiuderà in seguito altri orizzonti. Farà da mediazione il circolo apocalittico che esprime le sue attese nella letteratura enochica: nel Libro delle parabole di Enoch, un’opera precristiana giunta a noi nella traduzione etiopica, il titolo di Figlio dell’uomo perde il carattere collettivo e diviene nome di un individuo particolare, il Messia, l’Eletto.
Nel Nuovo Testamento
Nei vangeli, l’espressione Figlio dell’uomo risuona un numero impressionante di volte (69 nei sinottici, 13 in Giovanni) ed esclusivamente sulle labbra di Gesù. Nessuno dice a Gesù «Tu sei il Figlio dell’uomo». Nel vangelo di Marco, Gesù dagli uomini viene chiamato Figlio di Davide, Maestro, Profeta e anche Signore, e soprannaturalmente viene detto «Figlio di Dio», mai Figlio dell’uomo. Questo appellativo non si trova mai nelle lettere apostoliche, ma solo una volta in Atti 7,56 (perché il martirio di Stefano è la copia fedele del martirio di Gesù) e poi, significativamente, nell’Apocalisse (1,13; 14,14), nel filone cioè della letteratura palestinese in cui l’espressione era ben compresa.
San Paolo, pur essendo il più antico scrittore cristiano, non la usa mai, consapevole che nel mondo greco sarebbe stata fraintesa, come poi in effetti fu: non significa affatto, o almeno non soltanto, che Gesù è Figlio dell’uomo in quanto uomo (come Figlio di Dio in quanto Dio), anzi è un’affermazione forte non solo di messianicità ma anche di trascendenza.
L’attesa messianica
Nelle attese messianiche del tempo di Gesù, il Cristo doveva essere una figura solo gloriosa ma non divina, che veniva chiamata Figlio di Dio per metafora, per indicare un uomo che faceva la volontà di Dio.
Non era dunque una bestemmia riferirsi ad un uomo come al «Figlio di Dio»: nel senso in cui anche noi siamo figli di Dio, perché egli ci considera e ci ama come tali.
Era blasfemo, piuttosto, appropriarsi del titolo di Figlio dell’uomo, colui che viene con le nubi per sedersi alla destra del Padre…
Eloquente in Mc 14,62 la risposta di Gesù al sommo sacerdote che lo interroga sulla sua qualità messianica: «Io Sono! E vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza, venire con le nubi del cielo». Marco riporta nel modo più fedele la frase di Daniele 7,13, che recita «con le nubi» (’im) e non «sulle nubi» come invece riferisce Matteo. La nube rappresenta la manifestazione del Divino, e il Figlio dell’uomo viene in essa, non su di essa, come se se ne servisse solamente a mo’ di mezzo di trasporto. La dichiarazione solenne «Io Sono», che troveremo tante volte nel vangelo di Giovanni, e l’uso dell’immagine del Figlio dell’uomo sono una chiara proclamazione di divinità.
L’uso originale del titolo di Figlio dell’uomo permetteva quindi a Gesù di utilizzare un doppio registro, quello della gloriosa trascendenza ma al tempo stesso quello della umile e sofferta umanità. Proprio ciò che i discepoli rifiutavano di capire, anche se già il martirio del Battista avrebbe dovuto aprire loro gli occhi su quello che sarebbe stato il cammino di Gesù verso Gerusalemme.