Il fico «maledetto» è lo sfortunato protagonista di un episodio singolare: perché in questo caso il miracolo non reca beneficio ma reca danno. Inoltre, che colpa ha il fico se non ha frutti fuori stagione?
Il fico «maledetto»: il testo (Mc 11,12-14.20-25)
Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. Rivolto all’albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l’udirono. […]
La mattina seguente, passando, videro l’albero di fichi seccato fin dalle radici. Pietro si ricordò e gli disse: «Maestro, guarda: l’albero di fichi che hai maledetto è seccato». Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: “Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà».
Il fico «maledetto»: miracolo in due tempi
Povero albero di fico! Che colpa ha se non porta frutti fuori stagione? Infatti l’episodio accade ai primi di aprile, mentre il fico matura i suoi frutti a partire da maggio. Infruttuoso senza sua colpa, maledetto e per giunta seccato… è giusto questo? Inoltre si tratta di un fatto strano, innanzi tutto perché è un miracolo alla rovescia (apporta del male anziché del bene). È strano anche perché avviene in due tempi, anzi in due giorni. Per di più, se Gesù proprio voleva fare qualcosa nei confronti di questa pianta, perché non far sì che producesse frutti, invece di farla seccare? Possibile che si fosse indispettito con una creatura così innocente?
Prima di tutto, mettiamo il racconto nel contesto. Dove si colloca questo episodio? Quale significato aveva, al tempo di Gesù, l’immagine del fico pieno di frutti? E perché Luca omette il racconto?
Guardare al significato
Iniziamo dall’ultima domanda che ci siamo posti: perché la narrazione viene omessa da Luca?
La risposta è abbastanza ovvia: i lettori di Luca, di origine pagana, non avrebbero capito facilmente il simbolismo dell’episodio, e si sarebbero scandalizzati della durezza di Gesù, proprio come tendiamo a fare noi. Luca riporta, invece, la parabola del fico sterile curato dall’ortolano misericordioso. Questo ci dice subito che siamo di fronte ad un gesto parabolico, una parabola in azione. Ciò che va guardato è il significato, non il realismo della vicenda.
L’immagine del fico
Nel racconto di Genesi 2-3, l’albero della conoscenza, che rappresenta il possesso della realtà creaturale, non è altrimenti identificato. Solo nella cultura occidentale il frutto proibito è stato rappresentato come la mela, a causa dell’assonanza tra malum / mela e malum / male. Nell’interpretazione rabbinica, il frutto è il melograno, il cedro, l’uva o, preferibilmente, il fico, che proverbialmente diviene l’albero della conoscenza. «Stare sotto il fico», come Natanaele in Gv 1,48, significa studiare la Legge. Secondo altra opinione, volutamente Dio non ha fatto sapere di quale albero si trattasse:
«Per quale ragione la Scrittura non indica chiaramente il nome dell’albero? Perché il Santo, Benedetto Egli sia, non desidera umiliare nessuna delle Sue creature; altrimenti gli uomini coprirebbero di vergogna quest’albero, dicendo: “Questo è l’albero a causa del quale il mondo è stato colpito!”» (Genesi Rabbah XIX 7).
Il contesto dell’azione: un racconto a sandwich
Gesù sta andando a Gerusalemme dove purificherà il tempio dai traffici dei mercanti: è il Signore che entra nel luogo santo per cogliere i frutti della fede, ma lo trova pieno delle ladronerie degli ipocriti benpensanti, i quali reagiranno al suo gesto meditando un progetto di morte. Il giorno dopo, di nuovo provocherà i capi dei sacerdoti e gli scribi mettendoli davanti ad una domanda che ammette solo una risposta chiara, ma che invece li lascia muti nella loro ipocrisia.
Non vogliono rispondere che per loro l’autorità del Battista è solo una realtà umana, perché temono la reazione della folla. La loro condotta è frutto di calcolo e non di autenticità: essi, gli interpreti della Legge, con doppiezza affrontano i problemi e con opportunismo li risolvono. Sono loro ad essere paragonati ad una pianta sterile, che con la sua folta chioma promette molti frutti e non mantiene la promessa. La religiosità dei detentori dell’autorità sacra in tal caso è una ritualità esteriore, senza carità.
Mentre Matteo condenserà l’episodio in un solo giorno, Marco lo scinde in due, creando una struttura «a sandwich», costituita da un racconto di miracolo in due parti comprendenti all’interno l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio, il quale dà la chiave di lettura dell’intero brano.
Se si accentua l’aspetto cultuale, il fico infruttuoso viene a rappresentare direttamente la sterilità dei riti nel tempio, ormai condannato alla perpetua distruzione (che avverrà, effettivamente, nell’anno 70).
La vigilanza
Però, un significato particolare che Israele attribuiva alla pianta di fico potrebbe spostare leggermente questa interpretazione. Il fico, in una radicata tradizione rabbinica, è l’albero della conoscenza; stare sotto il fico (come Natanaele, in Gv 1,48) significava studiare la Torah, tanto più che, mentre negli altri frutti c’è sempre una parte da scartare (si pensi alla buccia ed ai noccioli, talvolta anche le spine), del fico si mangia tutto, dice il Talmud, così come nella Torah tutto è buono e nulla è da scartare.
Il fico rappresenta dunque, nell’ambiente di Gesù, lo studioso della Torah, che ogni giorno deve produrre i suoi frutti.
La metafora va oltre la realtà: il fico non fruttifica veramente ogni giorno, ma lo studioso deve farlo.
Perciò, anche se la pianta non può fare altro che seguire i suoi ritmi stagionali, il discepolo del Regno non deve conoscere stagioni, e ogni giorno è buono per la venuta del Signore in cui si raccoglieranno i frutti. Marco non ha le parabole che in Matteo fanno seguito a questo brano, quella del banchetto di nozze, quella delle vergini che attendono lo Sposo e quella del padrone che torna a chiedere conto ai servi dei talenti, ma ha ben presente il tempo dell’attesa:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!» (Mc 13,33-37).
Il discorso, poi, si sposta sulla fede del discepolo, una fede che – altro che far inaridire una pianta! – dovrebbe smuovere le montagne. Perciò il discorso si allarga anche alla efficacia della preghiera e quindi anche alla condizione necessaria per ricevere, nella preghiera, il perdono: la condizione è perdonare gli altri. Marco, che non presenta, al contrario di Matteo e di Luca, una formula del «Padre nostro», al v. 25 lo riecheggia chiaramente: «Se avete qualcosa contro qualcuno, rimetteteglielo, perché anche il Padre vostro, che è nei cieli, rimetta a voi le vostre colpe».
Il dono di sé
Ma viene in mente un altro aspetto, ripensando al frutto del fico come immagine della Torah: la disponibilità a lasciarsi «mangiare» interamente. La Parola di Dio si fa cibo per noi, e niente deve essere scartato. Cristo si è fatto e si fa cibo per noi, e niente ha conservato per sé (cfr. Fil 2,1-8): «svuotò se stesso», che è ben più di un semplice e più facilmente accettabile «umiliò» o «spogliò». Similmente il discepolo deve donarsi senza trattenere per sé il proprio ego. Proprio a questo ci richiama il cammino di conversione verso la Pasqua.