Il fantasy e il programma di vita di C.S. Lewis

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Il grande leone Aslan è il Cristo salvatore di Narnia

Il fantasy teologico e il programma di vita di C.S. Lewis. In un precedente articolo (QUI) abbiamo ripercorso insieme le tappe che hanno portato C.S. Lewis ad una fede cristiana matura e intellettualmente solida, dopo la sua clamorosa conversione avvenuta nel 1931. Che cosa è cambiato nella sua vita di scrittore?

L’asinello di Balaam

Il programma di vita di C.S. Lewis: L'asina di Balaam. Verona, San Zeno Maggiore
L’asina di Balaam (San Zeno Maggiore, Verona)

Dopo la conversione, C.S. Lewis non perde tempo. Come scrittore, deve evangelizzare. Lo farà con importanti opere apologetiche e lo farà con la narrativa, principalmente sette romanzi per adulti, e per i bambini i sette romanzi delle Cronache di Narnia. Lo sente come una missione precisa che gli è stata affidata. Egli stesso lascia scritto in un suo appunto personale: «La mia sola responsabilità, in quanto scrittore cristiano, è predicare il Mere Christianity, non ad clerum, ma ad populum».

Qualche parola di chiarimento.

Mere Christianity

Lewis era approdato alla fede cristiana grazie al riconoscimento che il mito, che tanto amava, aveva da lontano preparato l’avvento del Cristo, in cui il Verbo era realmente entrato nella storia.

Lo scrittore era partito nella sua infanzia dalla religiosità tradizionale di stampo puritano che aveva caratterizzato la sua famiglia. Tornando al cristianesimo non rientrò nel protestantesimo di origine. D’altra parte, persistenti pregiudizi gli impedivano di varcare il muro che divideva l’Inghilterra dalla Chiesa di Roma. Non se la sentì di farsi cattolico, e l’amico Tolkien rimase malissimo per questa sua decisione: aveva sperato che, come era avvenuto a molte persone di spicco in Inghilterra – il card. Newman e il card. Manning, Robert Hugh Benson, Bruce Marshall, Chesterton, Graham Greene, alla fine della vita anche Oscar Wilde -, Lewis sarebbe arrivato al cattolicesimo…

Si fermò invece ad una via di mezzo, a quella Chiesa Alta anglicana che gli sembrava rispecchiare, più di altre chiese, ciò a cui aderiva: quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est. «Ciò che ovunque, ciò che sempre, ciò che da tutti è stato creduto»: cioè quello che era stato il nucleo comune della fede cristiana, al di là dei frazionamenti confessionali.

Nella stessa Chiesa d’Inghilterra, però, Lewis riscontrava tante di quelle divisioni da rimanerne sconcertati. La Chiesa anglicana è una chiesa nazionale che ha per capo il re d’Inghilterra, ma non ha un organismo di magistero centrale in cui tutti si riconoscano, per cui è divisa in correnti che vanno dalla Chiesa Alta, che ha conservato la dottrina di Roma tranne che il riconoscimento del primato petrino, alla Chiesa Bassa che abbraccia le varie correnti protestanti, passando per la Chiesa  Larga, che rappresenta un’interpretazione liberale del cristianesimo.

C.S. Lewis auspicava, fra tutte queste divisioni, un’adesione ad una Chiesa che non fosse Alta né Bassa né Larga, ma ad una Deep Church, una Chiesa Profonda costituita dal cuore del cristianesimo; in altre parole, ad un Mere Christianity, un mero cristianesimo al di là delle differenze dottrinali. Ovviamente, questa essenza del cristianesimo non esiste astrattamente,  esiste solo in quanto incarnata in una Chiesa, e Lewis lo sapeva bene.

Ecco dunque il suo programma di scrittore: accompagnare i lettori al cuore della fede cristiana, a Cristo, affidando alla loro coscienza la Chiesa cui aderire. Lewis non è cattolico ma è sacramentalista (si confessa, fa la comunione, riceverà l’unzione degli infermi), non è protestante ma vive immerso nella Sacra Scrittura. Questo è il messaggio che fa passare attraverso i suoi scritti: direttamente, negli scritti teologici; figurativamente, nell’opera di narrativa. Non scriveva romanzi appositamente cristiani, ma la sua era un’immaginazione biblica, gli veniva spontaneo incarnarvi il vangelo.

Ad populum: l’asinello di Balaam

C.S. Lewis afferma di scrivere da laico e non da teologo, anche se non è digiuno di teologia come vorrebbe far credere. È invece assai profondo nella dottrina cristiana, ma ha il dono di comunicare con una scrittura facile anche verità difficili. Il suo scopo è evangelizzare, non confondere le idee. Perciò quanto scrive è teologicamente preciso e raffinato, ma espresso nel modo più semplice, secondo la sua convinzione:

«Qualunque imbecille sa esprimersi nella lingua erudita. La sola prova degna di questo nome consiste nello scrivere nella lingua corrente. Se non siete capaci di esprimere la vostra fede in quella lingua, o non la comprendete, o non vi credete».

Alla sua strabiliante capacità di farsi comprendere, Lewis univa la profondità del pensiero, ma dato che il suo proposito era quello di usare un linguaggio semplice comprensibile da tutti, amava paragonare la sua vocazione a quella dell’asina di Balaam, affermando che Dio può esprimersi anche per mezzo di un asinello… l’animale che parlando con voce umana confuse l’arroganza del profeta pagano. Leggete la storia nel libro dei Numeri, cap. 22. Quasi al termine della sua vita, lo scrittore, a mo’ di sintesi della sua missione (con i suoi libri aveva convertito alla fede cristiana una miriade di lettori), scriveva ad un amico gesuita:

«Sì, Dio è stato molto buono con me ed ha permesso che la mia opera raggiungesse più gente di quanto io avrei osato sperare. Ma mi ricordo che Egli può predicare qualunque sia lo strumento. L’asino di Balaam è l’esempio che tengo in mente.

P.S. Non potreste farlo canonizzare?».

La richiesta di C.S. Lewis alla Chiesa cattolica di canonizzare l’asinello di Balaam è una semplice battuta scherzosa. Ma dal servizio di Lewis in veste di asinello di Balaam è nato qualcosa di veramente grande: è Lewis che è stato iscritto nel calendario dei santi della Chiesa episcopale americana ed è ricordato come testimone della fede ed evangelizzatore il 22 novembre, giorno della sua nascita al cielo!

Tolkien, Lewis e la mitopoiesi: l’uomo come subcreatore

Una creatura mitologica: l’unicorno

Mitopoiesi e subcreazione. Parole in questo caso difficili per esprimere una concezione abbastanza semplice ma geniale che legava i due amici di Oxford così come li legava la fede cristiana, anche se di declinazione diversa, Tolkien cattolico, Lewis anglicano.

Il mito come subcreazione

Entrambi credevano nell’azione di Dio creatore e nella creazione dell’uomo quale immagine di Dio: allora, se Dio crea, anche l’uomo, che in questo mondo riflette la sua immagine, anche l’uomo crea – o meglio, subcrea, cioè crea a un grado inferiore.

Dio crea la realtà; l’uomo, sua immagine, crea il mito, non la realtà ma una interpretazione della realtà nel mondo del sogno. È la mitopoiesi, la fabbrica del mito. Coniata a partire dal greco mytospoieo / «fare» – «mito», la parola esprime bene la capacità tipicamente umana di interpretare la realtà mediante il mito, in questo caso però il mito d’autore, non sviluppato attraverso secoli dalla sapienza popolare ma creato in breve arco di tempo da un singolo scrittore.

Nella comune concezione di Tolkien e Lewis, il mito non è una degenerazione o un camuffamento della Verità, ma è una sorta di buon sogno che in qualche modo prepara da lontano l’accoglienza del Vangelo, dell’annuncio che quel sogno si è fatto realtà. Ma il mito non è solo annuncio: è anche apprendistato per vivere meglio nel reale.

Il mito come preparazione al reale

Lo scrittore cristiano e il fantasy. Mappa di Narnia, non modificata, da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_geografia_de_narnia-por_samuelmat.JPG
Mappa di Narnia (fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_geografia_de_narnia-por_samuelmat.JPG, non modificata)

Il mito, secondo gli scrittori oxoniani, non è una divagazione dalla realtà. La fantasia non è evasione dal mondo, ma visione del mondo da un punto di vista divergente e perciò più incisivo: del resto, fantasia deriva dalla radice del greco phaino / mostrare alla vista, da cui anche phos / lucee phanos / lume. È, quindi, un modo di far luce sulla realtà, non di distogliere da essa.

In particolare, i miti di Tolkien e Lewis, presentando ai lettori un mondo di valori cristiani, sono destinati ad ispirare loro, anche nella vita reale, un comportamento etico, coraggioso davanti a difficoltà che non vengono minimizzate, ma anche e soprattutto umile: il coraggio dell’umiltà. Non per niente i protagonisti, risolutori della vicenda, sono in Tolkien gli Hobbit, i mezzi uomini, in Lewis i bambini, perché è dei piccoli il regno dei Cieli.

Tolkien criticò fra le altre cose, nelle Cronache di Narnia, l’andirivieni dei protagonisti umani fra il mondo della fantasia e la terra reale, passaggio che egli non ammetteva per la sua Terra di Mezzo: ciò che è creato nel mito, nel mito deve restare. Ma questo escamotage letterario dell’amico Lewis ha una forte valenza pedagogica, permettendo ai giovani lettori, che vivono nell’universo reale, di immedesimarsi maggiormente in questi viaggiatori fra i mondi, quello fantastico di Narnia e quello prosaico dell’Inghilterra di metà secolo. Forse anche nel nostro mondo c’è un armadio, o un quadro, che è un portale verso la fantasia… Per il trailer del film Il Leone, la strega e l’armadio, cliccare QUI.

Il fantasy teologico: quando la fantasia diviene mistica

Il fantasy e il programma di vita. C.S. Lewis maestro dello spirito, saggio di Anna Giorgi.
C.S. Lewis maestro dello spirito (saggio di Anna Giorgi)

In Lewis è presente un afflato mistico che promana dal suo esser cristiano. Tolkien, fervente cattolico, per rispetto della propria fede scelse di non «sbandierarla» apertamente nei suoi romanzi, facendone il substrato ma non esplicitandola mai. Lewis, fervente cristiano innamorato di Cristo, per rispetto della propria fede fece la scelta opposta: quella di divulgarla nei suoi romanzi sotto il velo lieve del simbolo.

In forma figurativa, con parole che non sono riferite direttamente alla fede cristiana, il lettore, piccolo o grande che sia, è accompagnato all’incontro col Cristo. Indimenticabile la scena che nel romanzo Il cavallo e il ragazzo ha per protagonista il piccolo Shasta nel suo incontro con il Grande Leone:

«Il re al di sopra di tutti i re si chinò verso di lui. Shasta fu coperto dalla grandissima criniera e inondato da un profumo strano e solenne. Il Leone gli toccò la fronte con la lingua, Shasta alzò lo sguardo e i loro occhi si incontrarono. In un attimo la pallida lucentezza della foschia e il fiammeggiante splendore del Leone si intrecciarono in un turbinio di luci e scomparvero».

Non basta: la scena è trinitaria. Quando Shasta chiede ad Aslan «Chi sei?», Aslan per tre volte risponde, proclamando sempre con una voce diversa: «Me stesso» (il chiaro rimando è a «Io Sono Colui che Sono» di Es 3,14). La prima volta con voce bassa e profonda che scuote la terra, come la voce del Padre sul Sinai; la seconda volta con voce chiara e squillante, come l’annuncio del Vangelo del Figlio di Dio; la terza volta con un sussurro bisbigliato appena, come fa lo Spirito Santo nella Chiesa.

Le Cronache di Narnia sono dichiaratamente un’opera cristologica, il che non disturba affatto il lettore. Ma anche i suoi sette romanzi per adulti sono un’opera dichiaratamente cristiana. Forse dovremmo partire da quel capolavoro assoluto che sono le Lettere di Berlicche: corrispondenza infernale da un diavolo a un altro.