Il grido di Giobbe è il dramma dell’uomo

Il dramma dell'uomo nel lamento di Giobbe. William Blake
William Blake, Il lamento di Giobbe (1826)

Il grido di Giobbe è il dramma dell’uomo. E quanta sofferenza in ogni vita umana, quanta sofferenza in una guerra che alla somma delle sofferenze di ciascuno unisce, esaltandola all’ennesima potenza, l’ansia per un paese, per la libertà, per la giustizia, per la pace del mondo…

Una sofferenza evitabile

Viene da chiedersi quanta sofferenza si potrebbe risparmiare all’umanità se finalmente la guerra venisse messa al bando e le questioni si risolvessero con metodi pacifici consoni alla dignità dell’uomo. C’è da chiedersi quali tenebre gravino nella mente e nel cuore degli uomini per farli agire in tal modo contro l’amore, contro la giustizia, contro la stessa vita. Questo varrà su larga scala nel mondo della politica internazionale, ma anche nella nostra piccola esperienza quotidiana possiamo constatare quanto valga anche per i singoli, quando prevalgono le paure incontrollate, gli interessi privati, la volontà di sopraffazione. Non parliamo qui di questo tipo di sofferenza, quella che sarebbe evitabile con semplici atti di volontà umana. È doppiamente triste che sia evitabile e non si voglia evitare; ma è facilmente spiegabile.

Quello che è meno spiegabile è la parte che Dio – per i credenti – ha in questo: perché non interviene? Viene da chiedersi: perché non ferma gli aggressori? Perché non dà ragione a chi ce l’ha? Perché non protegge gli innocenti dai malfattori?

C’è una risposta a questo, e sta nella libertà intrinseca di scelta di ogni essere umano, ma preferisco rimandarla a dopo, per cercare di fare una valutazione complessiva. Quindi, partiamo invece dalla sofferenza inevitabile, quella che non dipende affatto dalla volontà umana, quella a cui Dio pare assistere indifferente o indolente, mentre potrebbe agire…

Il libro di Giobbe: indagine sulla sofferenza

Nella S. Scrittura non si trova solo teo-logia o discorso su Dio, si trova anche l’antropo-logia o discorso sull’uomo. È proprio il difficilissimo libro di Giobbe a rappresentare l’approccio più esteso al mistero della sofferenza, ma in modo complesso, perché sono diversi gli strati di cui lo scritto è composto.

Il libro di Giobbe è molto difficile. Così ne ha scritto S. Gerolamo: «Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano».

Il libro di Giobbe infatti è un libro di crisi, rappresenta cioè la crisi della sapienza antica, così formulabile: il giusto prospera e il malvagio perisce. Dio invece mostra a Giobbe l’incommensurabilità che lo separa da lui e quindi l’incongruità di porgli domande. Giobbe riconosce di essere piccolo e debole, ma mantiene la sua posizione, e questo piace a Dio. Non dobbiamo smettere di far domande a Dio, e persino di “litigare” con lui, ma le domande saranno sempre più grandi delle risposte (fino all’altra vita: ma questa è una prospettiva che ancora in Giobbe non emerge). La sapienza “nuova” rappresentata dal libro di Giobbe non ha risposte per tutto.

 «Non solo il suo valore artistico, ma anche il suo contenuto, audace e gigantesca ricerca dell’antichissimo e pur eternamente nuovo problema umano del senso della sofferenza, colloca l’opera, nel suo significato generale, accanto alla Divina Commedia di Dante ed al Faust di Goethe» (Weiser). Altissima è la poesia delle immagini evocate dal libro di Giobbe, molto vari sono i toni usati: il grido, l’ironia, la protesta, la riflessione.

Il dramma dell’uomo

Diversi critici hanno considerato il libro di Giobbe come un dramma, come un’opera scenica che rappresenta l’azione di diversi personaggi sui grossi temi dell’esistenza dell’uomo. Dal punto di vista letterario non è un’opera drammatica, nel senso che ci sia una progressione nell’azione scenica; non c’è alcuna progressione, la forma letteraria è quella dei dialogo, ma praticamente si tratta di monologhi, cioè questi personaggi esprimono ciascuno il proprio modo di vedere il problema, ma senza reale scambio di battute fra l’uno e l’altro.

Però, dal punto di vista del contenuto, possiamo considerare il Libro di Giobbe proprio come un dramma: il dramma dell’uomo. Si potrebbe realmente fare il paragone con la Divina Commedia, cioè un viaggio nel cuore dell’uomo verso il mistero di Dio: questo è la Divina Commedia e questo è anche il Libro di Giobbe su un tema che è quello del dolore dell’innocente, che però poi è, in fondo, il problema del mistero di Dio nella vita dell’uomo.

La struttura

In effetti, il libro di Giobbe è un’opera composita, che si sviluppa per strati di diverse epoche di composizione disposti come cerchi concentrici.

La struttura del libro di Giobbe è così complessa che ha impiegato diversi secoli per potersi condensare, stratificare in una forma scritta, e questa constatazione ci dà un’idea della complessità del problema, un problema che ha richiesto alcuni secoli prima di trovare una risposta provvisoria, come è quella che è data dal libro di Giobbe.

I vari strati forniscono anche diversi tipi di atteggiamento di fronte al problema della sofferenza dell’innocente. Ci sono state, cioè, varie mani che, a loro modo, hanno cercato di arricchire il discorso, in ragione proprio della sua complessità.

Primo strato: la cornice popolare

Il dramma dell'uomo. Satana nella Corte celeste, William Blake
William Blake, Il satana nella Corte celeste

Il primo spunto all’agiografo, che ha dato luogo alla cornice (cap. 1-2 e 42), è venuto dalla figura popolare di un antico saggio, Giobbe, la cui vicenda, a lieto fine, doveva confermare che il momento della prova è transitorio (primo strato).

Cogliamo intanto il carattere popolare della narrazione, il tono di fiaba: il «C’era un uomo in terra di Uz…», la sua rettitudine, la sua favolosa ricchezza come ricompensa della condotta irreprensibile, l’immagine della Corte celeste, la figura del satana (semplicemente, l’avversario) e il suo girovagare in perlustrazione sulla terra. Notiamo che «il» satana non è Satana il Diavolo, ma un qualunque nemico, anche se non bene intenzionato nei confronti di Giobbe che evidentemente fa rabbia da quanto sembra integro e giusto. Il satana (sempre, rigorosamente, con l’articolo) chiede a Dio di metterlo alla prova con la sofferenza, e l’ottiene.

Toni di fiaba hanno anche le disgrazie che ripetutamente si accaniscono sui beni e sulla famiglia di Giobbe; tre + uno, di prammatica, i messaggeri che si precipitano a riferire le sciagure, sempre con la stessa conclusione: «Io solo sono scampato per venirtelo a dire».

Il dramma dell’uomo ha inizio: primo quadro

Il dramma dell’uomo va in scena. Di fronte alla sventura che lo ha colpito, Giobbe, forte nella fede e paziente, figura esemplare. riconosce che tutti i beni appartengono al Signore che, come li dà, li può pure liberamente togliere, e continua a benedire Dio.

Questo, anche quando il satana gli toglie la salute e lo riduce, come un relitto umano, a segregarsi dal consorzio civile sedendo sulla cenere. Unico suo bene rimastogli: un coccio di terracotta per grattarsi; e la moglie ad infamarlo.

Ma il senso della sua sofferenza è ben chiaro al lettore: il satana, da buon avvocato del diavolo, vuole mettere alla prova Giobbe con l’infelicità per mostrare che la sua virtù è debole e non resisterà.. vuole spingerlo, tramite la sofferenza, a maledire Dio. Una curiosità: l’advocatus diaboli era, fino a tempi recenti, colui che su incarico della Chiesa, nel corso di una causa di canonizzazione, doveva trovare argomenti contrari alla santità di una persona. La sua figura, come il satana di Giobbe, era infatti funzionale alla riprova delle virtù del santo.

Sappiamo già che il satana non avrà ragione: Giobbe manterrà la propria integrità nella sventura come aveva fatto nella felicità, e, come in una fiaba, riceverà il doppio di quanto aveva perduto, e ancora figli e figlie. Manca solo di aggiungere «E vissero tutti felici e contenti».

La sofferenza come «prova»

Giobbe e i suoi tormentatori, William Blake
William Blake, Giobbe e i suoi tormentatori. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26973467

Qui ci troviamo di fronte una interpretazione biblica della sofferenza che si rivela fondamentale; peccato che non sia onnicomprensiva. La sofferenza, in definitiva, è solo una «prova» da superare; superandola, si riottengono i beni perduti.

Questo è avvenuto ad Abramo quando, nella sua obbedienza, non ha esitato ad offrire il figlio in sacrificio, e facendolo lo ha riottenuto come dono di Dio per sempre.

Però, un momento: che bisogno ha Dio di testare l’uomo? Non lo sa, il Creatore, che cosa c’è nel cuore della creatura? Ci conosce così poco da aver bisogno di sottoporci a test?

Questo sarebbe palesemente assurdo, e infatti il senso biblico della prova non è questo. La prova biblicamente non è un test: è una difficoltà in cui l’uomo si mette alla prova e supera se stesso.

La prova come difficoltà che fa crescere

Il paragone più calzante non è con il test di verifica, ma con la prestazione sportiva. Per progredire, l’atleta deve continuamente mettersi alla prova e superare i propri limiti attuali. Se l’assicella del salto in alto non viene continuamente innalzata, la prestazione non migliorerà mai. La prova non serve a Dio, serve all’uomo. Serve per crescere.

La fede e l’integrità di Giobbe sono grandi nella felicità, ma divengono ancora più grandi nella prova. Nella logica narrativa, la prova ha un senso in quanto funzionale ad un bene più grande, transitoria perciò. L’ottica, fin dai tempi più antichi e per molti secoli ancora, è quella della ricompensa terrena: io sono buono, Dio mi premia con una vita lunga e prospera; io sono malvagio, Dio mi punisce con una vita breve e infelice. Se interviene la sofferenza, è solo per un momento di prova. Ci piacerebbe che le cose funzionassero davvero così…

La crisi della sapienza tradizionale

Ma le cose non funzionano così nella vita. La giustizia non è ricompensata con i beni di questo mondo, l’innocenza non è rispettata, coloro che pervertono le leggi di Dio e degli uomini trionfano, talvolta per tutta la loro lunga esistenza. È accaduto che un fulmine uccidesse un pover’uomo che camminava sulla spiaggia; quando mai un fulmine ha colpito i grandi dittatori, i grandi criminali? Senza con questo voler giudicare il cuore di nessuno, ma limitandoci a valutare il comportamento. L’esempio della guerra è lampante.

Il dramma dell’uomo: una risposta solo parziale

Questa prima risposta al problema della sofferenza dell’innocente, dunque, può essere valida ma solo in alcuni casi. Sicuramente va tenuta presente. Accade che proprio nella sofferenza la persona trovi se stessa, mentre la frivolezza di una vita banale non le aveva permesso di guardare più in profondità. Ma ci sono altri casi in cui la sofferenza schiaccia, devasta e basta. Dobbiamo andare oltre, come fa il Giobbe del secondo quadro: il dialogo con i tre amici.