Il contributo del Qoheleth al problema della sofferenza

Il contributo del Qoheleth: tra affanno e gioia

Cerchiamo di capire, a questo punto, quale sia stato il contributo del Qoheleth alla riflessione sul problema della sofferenza dell’innocente.

Il contributo del Qoheleth

Il contributo del Qoheleth: lo spirito di domanda. Fonte immagine: Mauro, CC BY-SA 2.0, 
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cat_%26_Question_mark.jpg
La coda a punto interrogativo del gatto esprime bene lo spirito di domanda del Qoheleth.
Fonte immagine: Mauro, CC BY-SA 2.0,

http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cat_%26_Question_mark.jpg

L’articolo precedente QUI.

L’amarezza delle constatazioni del Qoheleth sulla vita dell’uomo non è nuova nella cultura antica, anche se non è detto che vi siano influssi diretti di altre opere su quella del Qoheleth. Secondo Esiodo sarebbe meglio non essere nati. I Canti dell’arpista, nati in Egitto mille anni prima, affermano che anche i grandi del mondo vengono dimenticati. Pindaro (Pittica VIII) canta: siamo effimeri, sogno di un’ombra è l’uomo. La sapienza umana, in fondo, si somiglia tutta, perché nasce da una medesima esperienza. E l’analisi che Qoheleth fa di questa esperienza è spassionata. La vita dell’uomo è un’assurdità. Una vita simile merita di essere vissuta?

Primo insegnamento: tutto, sotto il sole, è vanità

Anche se il Qoheleth non ha il tono appassionato di Giobbe, da uomo distrutto dal dolore, ma piuttosto quello distaccato del vecchio saggio che tutto ha visto nella sua lunga esistenza, la sua disillusione non è minore. Quel che egli vede sotto il sole, in un ciclo continuo di corsi e ricorsi, è insensato. L’esistenza umana è ‘amal, fatica cieca e penosa, in un andare e venire senza significato. Niente di nuovo sotto il sole. La prima cosa che il Qoheleth insegna è che tutto, sotto il sole, è hevel, vanità, soffio che subito si dissolve. Il mondo non va come dovrebbe andare. E l’esperienza della sofferenza potrebbe suggerire di sfuggire dal rapporto con un Dio che non si comprende e che resta muto.

Secondo insegnamento: esiste la gioia

Però la seconda cosa che Qoheleth insegna è che in questa vita difficile e contraddittoria, pure, esiste la gioia, ed è dono di Dio. Qoheleth non è un bipolare che oscilla tra depressione ed euforia: è un realista, e sa che come c’è il momento del dolore c’è anche il momento della gioia. È la gioia delle cose semplici, di tutti i giorni: mangiare, bere, godere i frutti del lavoro.

Terzo insegnamento: Dio è presente

Tutti i pensieri della vanità della vita devono fare i conti in Qohelet con la consapevolezza di essere al cospetto di Dio: l’uomo biblico non può essere ateo, può solo vivere come se Dio non fosse. E questo è il terzo insegnamento di Qoheleth: è Dio il datore di tutti i doni; non è fatto a nostra immagine, ma è insondabile nella sua volontà; chiede di essere creduto e «temuto» (cioè rispettato) per quello che è, nella sua libertà, e non per quello che noi vorremmo che fosse.

È un Dio al di là degli schemi umani. Tuttavia, è presente all’uomo, è «il tuo Creatore» (Qoh 12,1), non è il dio astratto e asettico dei filosofi. Ed è la sua esistenza a conciliare in sé due aspetti estremi della vita, in apparenza contraddittori: la sofferenza e la gioia. Se non ci fosse questo Dio, allora sì che tutto sarebbe davvero un’illusione, non solo «sotto il sole», ma anche al di sopra…

E quanto al problema della sofferenza?

Di fronte al problema del dolore, l’unica cosa certa è che la logica non può essere quella retributiva: la sofferenza non è il castigo del peccato. L’esperienza intera grida che non è così. Il dolore del giusto è incomprensibile, e nessuno sembra preoccuparsene, nemmeno Dio. Eppure…

Come Giobbe, anche Qoheleth non crede in una vita eterna; però crede in Dio e nella sua opera. Dio «ha fatto bella ogni cosa» ed ha creato l’uomo «retto», perché cammini diritto davanti a sé: è l’uomo che va in cerca di tante complicazioni. Buona parte della sofferenza, dunque, l’uomo se la va a cercare, invece di vivere una vita semplice senza ansie immotivate. Dato che il Qoheleth parla di oppressi e di soprusi, si può anche supporre che secondo lui gran parte della sofferenza sia inflitta agli innocenti dagli oppressori che non seguono né le leggi di Dio né le leggi degli uomini. Non si spiega però come Dio non intervenga a favore dei deboli e degli infelici.

Sembra che il Qoheleth giri in tondo intorno al problema della sofferenza degli innocenti, però al centro di questo suo girare c’è l’unica realtà che non sia vana, Dio, e l’unica certezza dell’uomo, il timor di Dio. L’unico modo di essere felici è accettare le gioie di cui Dio dissemina la vita, sapendo che tutto quello che viene, viene dalle mani di Dio. Altra risposta, per ora, non si trova.

Il messaggio

Questo libro ci dimostra che la Bibbia non è un libro devoto; attraverso le sue molteplici sfaccettature ci insegna a fare domande, ma non dà la risposta a tutte le domande. È tipica del mondo ebraico la logica dei doppi pensieri: dobbiamo accettare spesso una dottrina e la sua contraria. È anche plausibile che un secondo epiloghista, dopo il primo redattore, abbia inserito in Qoheleth qualche ritocco per adattare il libro alla coscienza comune (come 11,9: «su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio»).

In questa oscurità, brilla tuttavia una luce: nessun valore umano è assoluto, nemmeno la sapienza, né la giustizia, e tuttavia la vita è voluta da Dio e perciò si deve godere del bene che in essa si trova nei limiti delle possibilità umane. L’uomo non deve cercare cose più grandi di lui, deve godere solo della gioia che può provare: il buon risultato delle buone opere, il cibo, l’amore.

Passi scelti

Godi la vita con la sposa che ami

  per tutti i giorni della tua vita fugace,

  che Dio ti concede sotto il sole,

  perché questa è la tua sorte nella vita  

  e nelle pene che soffri sotto il sole (9,9).

Che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro

  è un dono di Dio (3,13).

Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole.

  Anche se l’uomo vive per molti anni se li goda tutti (11,7 s.).

Ecco quel che ho concluso:

la perfetta felicità sta nel mangiare e bere

e godere dei beni in ogni fatica durata sotto il sole,

nei pochi giorni di vita che Dio gli dà: è questa la sua sorte.

Ogni uomo, a cui Dio concede ricchezze e beni,

ha anche facoltà di goderli

e prendersene la sua parte e di godere delle sue fatiche.

Anche questo è dono di Dio:

che egli non pensi molto ai giorni della sua vita breve,

perché Dio gli dà risposta attraverso la gioia del suo cuore (5,17 ss.).

Ma è il concetto di timore di Dio (cioè: affidarsi a Dio) a rappresentare il centro del pensiero del Qohelet:

Si moltiplicano i sogni, le vanità e le parole, ma tu temi Dio (5,6).

Tutto il resto è illusione. Chi ha il timore di Dio possiede il vero sapere. Di più, il Qoheleth non sa dire.