Il Codice di Santità presenta elementi più antichi della prima parte del libro del Levitico, echi di una situazione religiosa meno tranquilla, con maggiori rischi di sincretismo.
Un quadro arcaico
Vi è la necessità di rintuzzare ancora elementi pagani, ancora esistenti dal periodo della conquista al tardo periodo monarchico. Ne sono un esempio i sacrifici ai se‘irîm (17,7: capri dal pelo lungo, ovvero satiri, demoni o divinità minori cui erano dedicate certe alture) e i sacrifici di figli a Molek (20,1-5), la prostituzione sacra (19,29), la divinazione (20,6), costumi funebri come tatuaggio e tonsura (19,27 s.; 21,5).
Incombe il pericolo dell’indigenza che può spingere alla schiavitù, e la legislazione giubilare tende a combattere il latifondo; non è sviluppato il ceto degli artigiani e dei commercianti: questo quadro è ancora preesilico.
Il santuario viene presentato come quello del deserto, ma per artificio: la vita nomade in questo quadro sociologico è solo un ricordo, la base economica p ormai di tipo agricolo. Il libro del Levitico, tranne che in 16,2, ignora del tutto l’arca, che non esisteva più nel Secondo Tempio, mentre dà grande importanza al Kapporeth o Propiziatorio che si ritiene essere stato nel tempio post esilico il sostituto dell’Arca.
In questa seconda parte del Levitico, il Signore si presenta come il Santo, Colui che santifica il suo popolo, e questo ritornello lega insieme il Codice di Santità. Così infatti A. Klostermann (1877) ha chiamato questa parte per l’insistenza del ritornello (anticipato in 11,44 s.) «Siate santi, perché io, il vostro Dio, sono santo». La santità qui non è solo la sacralità di cose, luoghi, persone e tempi dedicati a Dio, ma anche gli obblighi di carità nelle relazioni sociali (cap. 19).
Il testo
9Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; 10quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio.
11Non ruberete né userete inganno o menzogna a danno del prossimo.
12Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore.
13Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo.
14Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore.
15Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia. 16Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo. Io sono il Signore.
17Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. 18Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.
Il comandamento dell’amore (Lev 19,18)
Amerai il prossimo tuo come te stesso. La frase è famosa, ma il testo non dice così. Presenta una anomalia grammaticale per la quale il verbo ahav (amare), che normalmente regge il complemento diretto (in latino si direbbe l’accusativo), è costruito invece con un complemento di termine. Dovrebbe quindi tradursi: «Ama per il tuo prossimo quello che ami per te». Quello che comanda non è dunque un forse impossibile sentimento di amore, ma una scelta di bene per l’altro come se si trattasse di noi stessi.