Viaggio nella Bibbia. Il casto Giuseppe

Il casto Giuseppe
Giuseppe e la moglie di Potifar. Rudolf von Ems: Weltchronik. Hochschul- und Landesbibliothek Fulda, Aa 88. Miniatur 30 68r. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=23797773

Il narratore, sapientemente, come per avvertirci di ciò che sta per accadere, commenta per la prima volta all’improvviso la bellezza di Giuseppe: «Ora Giuseppe era ben fatto e di bell’aspetto» (Genesi 39,6). La moglie di Potifar appare nel versetto successivo:

«Dopo queste cose, la moglie del suo padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse:”Giaci con me”» (39,7).

Status antitetici

Il tentativo di seduzione di Giuseppe gioca su tre segni critici dell’identità: etnia, genere e classe. Colui che incarna il potere è donna, di classe alta ed egiziana; colui che è impotente davanti a tale potere, invece, è maschio, schiavo ed etnicamente “altro”, ripetutamente identificato come “ebreo” (39,14.17). Ma è proprio a causa del suo genere maschile che Giuseppe è dotato della forza fisica per resistere.

Il casto Giuseppe: Attenzioni richieste?

Uno status di eunuco di Potifar (Genesi 39,1; saris, nome di una carica, poteva o meno corrispondere anche ad una condizione fisica di menomazione) spiegherebbe la frustrazione di sua moglie e l’intensità della tentazione che Giuseppe, bellissimo schiavo ebreo e quindi sottomesso, rappresentava. Ma il midrash incolpa anche Giuseppe. Secondo Genesis Rabbah, come risultato della sua vertiginosa ascesa al potere nella casa del suo padrone, quello che noi siamo abituati a chiamare il casto Giuseppe diventa compiaciuto di sé e vanaglorioso; inizia ad arricciarsi i capelli e a truccarsi gli occhi, comportandosi da damerino:

«Come un eroe [gever / gibbor], che sedeva al mercato, truccandosi (o sbattendo le palpebre) gli occhi, sistemandosi i capelli e sollevando il tallone, dicendo: “Sono un tale eroe!”» (Gen Rab 87,3).

Voler implicare Giuseppe in qualche modo di ottenere l’attenzione della moglie di Potifar non è altro che un luogo comune misogino, qui rovesciato al maschile: la vittima di avances non consensuali o aggressioni sessuali deve averle “cercate”. Questa è un’accusa spesso rivolta alle donne, raramente agli uomini. Eppure, in quanto uomo, si presume che Giuseppe possa resistere fisicamente. 

La moglie di Potifar non viene mai nominata nel brano biblico, ma viene semplicemente chiamata אֵשֶׁת אֲדֹנָיו, “moglie del suo [di Giuseppe] padrone” (vv. 7-8), o אִשְׁתּוֹ, “sua moglie” (v. 19). È considerata un’estensione della proprietà del marito ed è quindi sottomessa al “padrone”, proprio come Giuseppe. In fondo, sono entrambi suoi schiavi. È, come dire, il pane di Potifar, che solo lui mangia ed a cui ha accesso esclusivo, l’unica cosa da cui Giuseppe è escluso: 

«Egli (Potifar) lasciò tutto ciò che aveva nelle mani di Giuseppe, e non gli chiedeva conto di nulla se non del pane che mangiava. Ora Giuseppe era bello di forma e bello di aspetto» (Gen 39,6).

Infatti, quando le resiste, Giuseppe riecheggia quanto detto del pane di Potifar, menzionando il fatto che solo la moglie, tra tutti i suoi beni, è stata negata a Giuseppe:

«Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: “Ecco, il mio padrone non si cura di nulla in questa casa, e tutto ciò che possiede l’ha messo nelle mie mani. Non è più grande di me in questa casa, e non mi ha negato nulla, se non te, perché sei sua moglie» (Gen 39,8-9).

Il casto Giuseppe: Una resistenza epica

Lo shalshelet. Fonte immagine: https://www.sefaria.org/sheets/390638.291?lang=bi&with=all&lang2=en

È significativo che i Masoreti (gli studiosi che nell’Altomedioevo hanno fissato il testo ebraico) abbiano posto sul verbo ma’en, rifiutare, che apre il versetto, un segno di shalshelet, ovvero di cantillazione, che conferisce forte enfasi alla parola. Tale segno  ricorre solo quattro volte nell’intera Torah (Genesi 19,16; 24,12; 39,8; Levitico 8,23), sempre su parole che si trovano all’inizio del versetto. Il segno indica che il soggetto della storia sta subendo una certa esitazione nelle sue azioni: Lot nel lasciare Sodoma; il servo di Abramo nel cercare una sposa per Isacco; Giuseppe nel rifiutare le avances della donna; Mosè nel procedere alla consacrazione sacerdotale di Aronne.  

In questo modo i Masoreti hanno voluto indicare quanto sovrumana debba essere stata la resistenza di Giuseppe alle sue avances, lottando con i suoi demoni interiori.

Giuseppe infatti prosegue invocando la fedeltà al suo padrone e a Dio [ʾElohim ], un appello universale ai principi morali:

 …«Come dunque potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?» (Gn 39,9).

Eppure la signora persiste, tentandolo giorno dopo giorno (v. 10). Infine, un giorno lo sequestra da solo in casa:

«E avvenne in quel giorno, che egli entrò in casa per fare il suo lavoro, mentre non c’era nessuno della gente di casa in casa. Lei lo afferrò per la veste, dicendo: “Giaci con me”. Ma egli le lasciò la veste in mano, fuggì e uscì dalla casa» (Gen 39,11-12).

Di nuovo tradito dalla veste

Abbiamo già visto come Giuseppe sia perseguitato dai suoi abiti. Qui l’indumento è chiamato בֶּגֶד (beged), nome generico che però permette in ebraico un gioco di parole con  la radice ב.ג.ד / BGD, ovvero tradire. Ma Giuseppe lascia l’abito, ma non tradisce. Di fronte al suo rifiuto, la donna accusa il suo potenziale amante di tentato stupro:

«Chiamò gli uomini della sua casa e disse loro: “Ecco, ci ha condotto in casa un Ebreo per prendersi gioco di noi. Egli è venuto da me per giacere con me, e io ho gridato a gran voce”» (Gn 39,14).

Dopo aver sottolineato che Giuseppe è un ebreo, ʿivri (letteralmente “colui che attraversa”, cioè l’“altro” per eccellenza alla corte egizia), nei confronti dei servi si appella alla loro solidarietà, tattica che non ripete quando presenta la sua accusa al marito (vv. 17–18). Dichiara infatti che loro, cioè lei e i servi, sono “scherniti” da Giuseppe (tzacheq).

Di nuovo nella fossa

Sebbene Potifar sia furioso (v. 19), non condanna Giuseppe a morte, non tanto perché il tentato stupro non fosse un reato capitale, quanto perché il padrone poteva ben dubitare del racconto della moglie. Invece, Potifar getta Giuseppe, il suo schiavo ebreo, in prigione, מְקוֹם אֲשֶׁר אֲסִירֵי הַמֶּלֶךְ אֲסוּרִים, «il luogo dove erano legati i prigionieri del re» (v. 20). È una cella d’élite, ma ancora una volta sotto terra, come la cisterna in cui era stato gettato dai suoi fratelli (37,20). Nonostante il suo atteggiamento da eroe, da oggetto del desiderio altrui torna ad essere ridotto a essere totalmente abietto, dimenticato, come morto, nell’ennesima fossa.