
No, non ce lo immaginiamo proprio il Carducci a pranzo con le suore. Eppure è attestato: il 7 agosto di quasi 130 anni fa, nel 1895, l’autore dell’Inno a Satana pranzò alla Badia di Bertinoro, con madre Serafina Farolfi e le sue consorelle, le Clarisse missionarie del SS. Sacramento, che lì hanno la loro Casa Madre (un articolo sulle Clarisse missionarie QUI).
La Badia di Bertinoro, antichissimo monastero (fondato forse già nel VII secolo) prima benedettino e poi camaldolese, era ormai disabitata e la comunità di madre Serafina vi si era insediata fin dal 1890. Il carisma della fondatrice era molto semplice e molto forte: «Amare, far amare l’Amore, senza che l’azione tolga il soave riposo alla contemplazione». Unire, insomma, la vita apostolica di San Francesco con il carisma di S.Chiara (vita contemplativa); da entrambi attingere lo stile della fraternità nella scelta della povertà, della letizia, della semplicità, della minorità. E cosa può entrare in tutto questo il Carducci?
Giosuè Carducci anticlericale ma…

Anticlericale, anticristiano e anticattolico, iscritto alla massoneria, il Carducci era stato il perfetto ed illustre rappresentante della cultura dominante del primo Regno d’Italia, osannato e celebrato. Il toscanissimo poeta era nato in Versilia nel 1835, precisamente il 27 luglio, ma era cresciuto a Bolgheri nel livornese, dove il padre, fervente mazziniano, aveva tenuto per un decennio una condotta medica. Il giovane Giosuè ebbe la possibilità di studiare i classici a Firenze dagli Scolopi e poi di laurearsi in Lettere classiche alla Scuola Normale di Pisa, a soli ventun anni. Ottenne subito l’insegnamento nelle scuole superiori e, ad appena 25 anni, la cattedra di letteratura italiana a Bologna, cattedra che ricoprì per più di quarant’anni fino al 1904: un vero primato. E se da ragazzo veniva punito dai Padri Scolopi perché rifiutava di scrivere papa e re con l’iniziale maiuscola, a 28 anni pubblicò un Inno a Satana (dove Satana rappresentava il progresso) esprimente apertamente una piena ostilità verso la religione cristiana.
… A Bertinoro …

Quindi, no, con queste premesse non ce lo immaginiamo proprio il Carducci a pranzo con le suore della Badia. Eppure, col passar del tempo una vena di religiosità, forse basata inizialmente solo su una sensibilità poetica, cominciava ad affiorare. Nel 1892, sotto una immagine del Cristo mostratagli dalla Marchesa di Villamarina dama di compagnia della regina Margherita, il poeta scrisse di suo pugno questa quartina:
«Le braccia di pietà che al mondo apristi,
sacro Signor, da l’albero fatale,
piegale a noi che, peccatori e tristi,
teco aspiriamo al secolo immortale»
(Landucci P.C., È provata la conversione del Carducci?, in Cento problemi di fede, Assisi 1962, 315).
Il 1° settembre 1894 scriveva al professor Paolo Tedeschi queste parole: «A Dio voglio credere sempre più. Il cristianesimo cerco d’intenderlo storicamente. Al cattolicesimo sento impossibile avvicinarmi con intelletto d’amore; ma rispetto i cattolici buoni» (Mondrone D., Assaggi dall’epistolario Carducciano (Voll. XVI, XVII, XVIII, XIX), Civiltà Cattolica, I (1957), 285).
È chiaro che si stava attutendo in lui la vena polemica, e che nei suoi versi di quegli anni affioravano immagini religiose tradizionali e poetiche, come i rintocchi delle campane e, nel Sabato Santo,
«Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
candido, radïante, Cristo risorge al cielo…».
La chiesa di Polenta

Fonte immagine: https://www.casacarducci.it/objects/media-carducci-7_12-jpg
Semplici immagini poetiche, si può dire. Forse sono semplici immagini poetiche anche quelle, insistite, della Chiesa di Polenta? La chiesa di cui il poeta (1897) suggerisce che
«Forse qui Dante inginocchiossi? L’alta
fronte che Dio mirò da presso chiusa
entro le palme, ei lacrimava il suo
28 bel San Giovanni;
e folgorante il sol rompea da’ vasti
boschi su’ l mar. Del profugo a la mente
ospiti batton lucidi fantasmi
32 dal paradiso:
mentre, dal giro de’ brevi archi l’ala
candida schiusa verso l’orïente,
giubila il salmo In exitu cantando
36 Israel de Aegypto».
Ma poi prosegue:
«Salve, affacciata al tuo balcon di poggi
tra Bertinoro alto ridente e il dolce
pian cui sovrasta fino al mar Cesena
104 donna di prodi,
salve, chiesetta del mio canto! A questa
madre vegliarda, o tu rinnovellata
itala gente da le molte vite,
108 rendi la voce
de la preghiera: la campana squilli
ammonitrice: il campanil risorto
canti di clivo in clivo a la campagna
112 Ave Maria.
Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto, i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
116 Dante ed Aroldo.
Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono
120 e che saranno?
Un oblio lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar quïete,
una soave volontà di pianto
124 l’anime invade.
Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
128 Ave Maria».
Qui ci sembra che la semplice vena poetica ceda ad un sentimento più profondo, almeno ad un personale bisogno di ricerca. Sì, si può trattare anche solo delle comprensibili aspirazioni dello spirito umano in continua ricerca di pace. Ma forse c’è qualcosa di più.
Testimonianze di fede?

Un segno di lento riavvicinamento a Dio e alla Chiesa si riscontra nella lettera che il 23 dicembre 1905 il Poeta inviò alla contessa Silvia Pasolini:
«Voglio fare le mie confessioni: cioè vo’ dire cose che, dopo morto, tolgano ogni dubbio del come io pensassi e credessi. Cominciamo dal principio: da Dio, o da chi è tenuto Dio (…). Confesso che mi lasciai trasportare dal principio romano, in me ardentissimo; e fu troppo. Ma quasi al tempo stesso soavi cose pensai e scrissi di Cristo: “Oh, allor che del Giordano a i freschi rivi / traea le turbe una gentil virtù…”. resta che ogni qual volta fui tratto a declamare contro Cristo, fu per odio contro i preti; ogni qual volta che di Cristo pensai libero e sciolto, fu mio sentimento intimo. Ciò non vuol dire che io rinneghi quel che ho fatto: quel che scrissi, scrissi: e la divinità di Cristo non ammetto. Ma certe alcune espressioni sono troppo; ed io, senza adorare la divinità di Cristo, mi inchino al Gran Martire umano. Questo voglio che si sappia, e lo scrivo a Voi, perché capace di dirlo apertamente. Giosuè Carducci»
(Messeri A., Da un carteggio inedito di Giosuè Carducci, Bologna 1907).
La testimonianza di Luigia Tincani
Esiste una testimonianza di Luigia Tincani, fondatrice delle Missionarie della Scuola, figlia del latinista e grecista Carlo Tincani che era allievo e ammiratore del Carducci:
«Mi ricordo che andavamo a Messa, intorno al ’96, e passavamo davanti al Zanichelli; Carducci era già toccato al braccio, e non aveva più la parola sciolta. Stava seduto lì dal Zanichelli [l’editore]; e molti dei suoi gli facevano circolo. Una volta capitò mio padre: “Dove sei stato?”. “A Messa!”. Lo irrisero. Capitò Carducci, s’inquietò, come faceva sempre, quando dell’anticlericalismo vedeva fare una bandiera. Carducci stigmatizzò quelli che deridevano il credente che era andato alla Messa: “Allora, gli risposero, bisogna credere anche a Cristo Dio!”. “E chi ti dice che Cristo non sia Dio, come pensano i cristiani?”. “Allora bisogna credere all’anima immortale e all’esistenza di Dio!”. E Carducci: “Disgraziato, e chi ti dice che non esista Dio, e che l’anima non sia immortale!”. E, tutto sdegnato se ne andò, prendendo il braccio di mio padre. Per tutta la strada tacque. Pensava…».
E addirittura, sempre nella testimonianza di Luigia Tincani:
«Mio padre, pur se allora non era praticante, combatteva per la difesa della religione e della Chiesa. Era naturalmente Vice-presidente del Consiglio scolastico, che contava altri quattordici membri: tutti massoni (…). Noi eravamo amiche delle figlie del custode della Certosa. Abbiamo sentito che Carducci in morte volle i Sacramenti e, malgrado la guardia feroce che gli montavano i massoni, li ebbe da un sacerdote vestito da barbiere e venuto con la scusa di fargli la barba»
(Venturelli G., Don Luigi Orione e la Piccola Opera della Divina Provvidenza. Documenti e testimonianze. Vol. V: 1909-1912, Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma 1995, 316-317).
La testimonianza di don Orione
La notizia di una «conversione» del Carducci è confermata da una testimonianza ricevuta da don Orione, riportata da don Giuseppe Zambarbieri e riferitata nel suo processo di beatificazione:
«Una notte il Carducci passò in piedi, passeggiando avanti e indietro nella sua stanza. Fu una notte assai simile a quella dell’Innominato. Al mattino si presentò all’abate Chanoux e si è confessato. Ho chiesto se vi sono prove di veridicità. Don Orione è stato di persona a Courmayeur per accertare il fatto, penso che sia stato inviato in missione straordinaria. Ed ebbe dall’abate la conferma»
(Archivio Generale della Piccola Opera della Divina Provvidenza, Roma, Posizione Zambarbieri, 2).
La confessione sarebbe avvenuta nel 1895; e, realmente, il poeta in quell’anno aveva fatto la sua vacanza estiva a Courmayeur. Altre testimonianze su questo evento furono raccolte dalla bocca del Beato don Orione dal suo primo biografo, don Domenico Sparpaglione, che in occasione del primo processo ordinario per la canonizzazione di Don Orione svoltosi a Tortona affermò sotto giuramento:
«Non saprei precisare quando, ma negli ultimi giorni trascorsi da Don Orione a Tortona, prima di recarsi a San Remo, dove morì, io per incarico del Salesiano Don Cojazzi chiesi a lui i particolari della confessione di Giosuè Carducci, della quale egli aveva parlato in una predica tenuta sul “Conte Grande”. Egli, studiando bene le parole, confermò che il poeta andò durante un’estate a trovare l’Abate Chanoux sul Piccolo S. Bernardo, dal quale si confessò, e aggiunse di averlo saputo da una persona incapace di ingannare, ma non volle dirne il nome perché vincolato da un segreto, essendo quella persona depositaria di due lettere del Carducci relative all’avvenimento, ma in pericolo qualora il segreto fosse stato rivelato. Quanto alla morte cristiana del Carducci, Don Orione mi disse che la riteneva per lo meno probabile e che non bisogna lasciarsi ingannare da tutto quell’apparato massonico, che l’accompagnò»
(Sacra Congregatio pro Causis Sanctorum. Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Aloisii Orione. Summarium, Roma 1976, 158-159).
«La Vergine mi deve voler bene…»

Niente di strano che nel Carducci, col passare del tempo, sbolliti gli ardori giovanili e gli estremismi quando associava Dio al clericalismo, sia sopravvenuta una riflessione più profonda sui misteri della vita. Forse il ritorno ai sacramenti, se ci fu, fu una sorta di ritorno all’infanzia. Ma la sua intelligenza lo doveva pure far ripensare alla dimensione della fede che vedeva testimoniata in persone che stimava anche se non ne condivideva le idee. Anche Dante dovette aiutarlo in questo cammino interiore. Ma forse anche madre Serafina e le sue consorelle fecero la loro parte quando il Carducci le conobbe a Bertinoro e accettò di andare a pranzo con le suore. Lo attesta la studiosa Elisa Bertozzi Desco, nella sua recentissima opera sulle Clarisse Francescane Missionarie del Santissimo Sacramento (Madri e Sorelle, edizioni Artestampa, Modena 2023), sulla base dei documenti d’archivio:
«Ferveva la vita alla Badia – e la vita attrae. Attrasse anche Giosuè Carducci, amante e frequentatore di quei luoghi. Da essi trasse ispirazione per diverse sue poesie, come “La chiesa di Polenta”, scritta nel 1897, in cui dipinse con mirabile sintesi “Bertinoro alto e ridente”. Il 7 agosto di due anni prima il poeta era stato ospite a pranzo da Serafina e le suore della Badia» (pag. 54).
Correva proprio l’anno 1895, quello in cui il poeta soggiornò d’estate a Courmayeur e conobbe l’abate Chanoux. Un piccolo tassello del suo cammino interiore fu forse costituito proprio dalla convivialità con Madre Serafina e le sue sorelle.
Come mai però il Carducci, se alla fine si arrese davvero a quel Galileo che aveva vilipeso con i suoi versi, non manifestò mai apertamente la propria conversione? Don Orione lo chiarì in modo icastico: il poeta «fu troppo debole per dirlo forte». Lo mostrò invece con piccoli segni. Uno è questo. In mezzo al fuoco e al frastuono dei suoi versi, non mancò mai di rispetto nei confronti della Vergine Maria. E alla fine disse: «La Vergine mi deve voler bene, perché ne ho parlato bene» (Landucci P.C., È provata la conversione del Carducci?, 322).