
In Luca la domanda del giurista appare di carattere profondamente esistenziale: come si può avere la vita eterna? Ora, Gesù non inventa niente di nuovo concentrando la legge sull’amore di Dio e del prossimo. I rabbini già discutevano su quale fosse il più grande comandamento dei 613 che costituiscono la legge di Mosè, e non c’era dubbio che fosse il comandamento dell’amore.
Chi è il mio prossimo?
Il problema era: verso chi? Verso Dio, certamente, come richiede Dt 6,4 ss.; ma verso quale uomo l’amore è dovuto? Chi è il prossimo da amare? Per giustificare la domanda più ampia, cui la risposta era ovvia, lo studioso ne pone dunque una più precisa: chi è il mio prossimo?
La risposta a questa domanda non era affatto scontata: il prossimo è certamente il parente, l’amico, il conoscente, il vicino, il compaesano, l’appartenente allo stesso popolo; lo straniero bisognoso di aiuto; anche lo straniero amichevole con Israele; ma il nemico? Il pubblicano, traditore? Il samaritano, scismatico? Il romano, oppressore?
Il buon Samaritano
Gesù non risponde direttamente ma con una parabola, anzi alla fine rovescerà la domanda: non “chi è il mio prossimo”, ma “come si diviene prossimo per gli altri?”.
L’ambiente è realistico: la strada che unisce Gerusalemme a Gerico scende da un’altitudine di m. 750 s.l.m. fino a m. 350 sotto il livello del Mediterraneo; è lunga 27 km. e si snoda nel deserto, covo di predoni.
I protagonisti
Il sacerdote e il levita, di pura discendenza israelitica, passano per questa strada: ma, essendo innanzi tutto gli uomini del Sacro, temono la contaminazione che il rapporto con la morte comporterebbe (cfr. Lev 21,1), e vanno oltre. Non si dice che siano insensibili, o malvagi: ma altre preoccupazioni, come quella per la purezza rituale, li allontanano dallo sventurato.
Lo sventurato, a sua volta, il muto protagonista di tutto quanto, è indicato con un termine della massima ampiezza concettuale: anthropos è un qualsiasi essere umano, potrebbe essere chiunque, è chiunque. Noi diremmo “una persona”.
Il Samaritano, da parte sua, non è detto “buono”: questo è l’appellativo tradizionale con cui siamo abituati a chiamarlo (il Buon Samaritano), ma il vangelo non dà questo giudizio. Non qualifica con aggettivi i protagonisti della parabola, ma li mostra in azione: i primi si allontanano, il samaritano, invece, si avvicina perché ha compassione, e questo lo fa prevalere su ogni pregiudizio.
L’azione… e le azioni della misericordia
Ritroviamo qui il verbo chiave della misericordia di Dio, in ebraico racham, in greco splanchnìzomai (tà splanchna sono le viscere, 10 volte nei Vangeli, di cui una nel Benedictus lucano). Questo verbo compare nei Vangeli con il senso di avere misericordia, etimologicamente provare il fremito delle viscere.
Il Samaritano si fa contagiare dall’amore di misericordia di Dio verso questo sconosciuto, perciò spende senza riserve impegno personale, tempo e denaro, e questa pienezza di donazione è espressa da ben 7 verbi: ha compassione – si avvicina – fascia le ferite – vi versa olio e vino – fa salire sul giumento il ferito – lo conduce alla locanda – dà denaro al locandiere perché si prenda cura di lui.
I requisiti per essere prossimo…
A questo punto, la domanda si sposta: non riguarda più quali siano i requisiti necessari a catalogare l’altro come “prossimo” in quanto tale (non ce ne sono: l’oggetto della misericordia è soltanto una persona senza altri elementi di identificazione: ànthropos), ma come si diviene “prossimi” di chiunque altro. Il sacerdote e il levita temono l’impurità che potrebbero contrarre e si tengono lontani dal poveretto che potrebbe morire fra le loro mani (il contatto con la morte dava impurità rituale per sette giorni).
… O meglio, compagno
Forse si comprende meglio il problema se togliamo al vocabolo la connotazione spaziale che ci viene spontaneo conferirle (prossimo è chi è vicino a me per qualunque motivo) e le ridiamo la sfumatura particolare che ha in ebraico, derivando la parola rea‘ / “prossimo” dalla radice r‘h = pascere, nutrire: si tradurrebbe meglio, forse, “compagno” da cum-panis, “colui che mangia il pane insieme”, “commensale”: si può essere vicini, gomito a gomito persino, per tanti motivi, anche sgradevoli, ma se si condivide la stessa mensa siamo fratelli.
Si capisce meglio, allora, la difficoltà di rispondere alla domanda: Chi devo considerare come mio compagno? E più ardua è la risposta di Gesù: Chi ha bisogno, quello è il tuo compagno!