Viaggio nella Bibbia. Iefte: quando uno se la va a cercare

Giovanni Francesco Romanelli – Iefte incontra sua figlia – 1562 – Kunsthistorisches Museum

La storia di Iefte si inquadra nel libro dei Giudici. Con i Giudici, la Terra Santa, contesa dai nemici, viene difesa dall’oppressione dei popoli pagani. Dio suscita dei carismatici o liberatori che salvino le varie tribù di Israele quando queste, dopo aver peccato adorando Baal ed Astarte, si pentono e gridano al Signore.

Dopo l’epopea di Deborah e Gedeone viene un altro episodio esteso, quello di Iefte. Il giudice Iefte è menzionato per la vittoria sugli ammoniti ma anche per lo sconsiderato voto di sacrificare al Signore chi per primo avesse incontrato tornando a casa vittorioso. Questa persona sarà l’unica sua figlia, che egli immolerà dopo che le compagne ne avranno pianto per due mesi, insieme a lei, la verginità, cioè una fine immatura, senza discendenza. Lo scrittore cita al riguardo una festa annuale in cui per quattro giorni le fanciulle di Israele piangono la figlia di Iefte.

Storia di Iefte e di una figlia senza nome

Iefte, giudice di Galaad. Figlio illegittimo, nato da una prostituta, è scacciato dai fratellastri, che non lo volevano a parte dell’eredità paterna. Le sue origini dunque sono oscure, e Iefte trasferendosi nella regione di Galaad raccoglie attorno a sé una banda di avventurieri.

Ancora una volta nella storia si ripete lo schema tipico di questa fase tribale. Da oltre 18 anni gli ammoniti opprimono con le loro razzie gli abitanti della regione. Gli Israeliti chiedono a Dio di essere liberati; gli anziani contattano Iefte perché prenda il comando.

Non è dunque il Signore che sceglie Iefte, ma gli anziani del popolo, promettendo inoltre di mantenergli l’incarico anche in seguito. Nel momento in cui Iefte si accinge ad affrontare gli ammoniti, però, lo Spirito del Signore è su di lui per guidarlo. Pare che ciò non basti a Iefte, perché questi fa un voto supplementare – non solo non necessario, ma anche atroce. È il voto di sacrificare a Dio, se vincitore della guerra contro gli ammoniti, chi per primo gli uscirà incontro dalla porta di casa. La battaglia contro gli Ammoniti si risolve con una loro schiacciante sconfitta; per cui Iefte, tornando a casa, sa di dover mantenere la promessa votiva fatta a Dio.

Una volta pronunziato, il voto deve essere mantenuto e Iefte pensa di non potervisi sottrarre in alcun modo. Il narratore non si pronunzia sulla moralità di questo voto, si limita a raccontare l’atroce vicenda. 

Il voto pronunziato a queste condizioni sa di atto magico, quasi un ricatto nei confronti della divinità; un tentativo di manipolazione di Dio, sebbene Dio a Iefte avesse già assicurato la vittoria. E così Iefte, invece di accogliere un dono, ne fa oggetto di trattative, di estorsione.

Il testo

11 29 Allora lo spirito del Signore venne su Iefte ed egli attraversò Gàlaad e Manàsse, passò a Mizpa di Gàlaad e da Mizpa di Gàlaad raggiunse gli Ammoniti. 30 Iefte fece voto al Signore e disse: «Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, 31 chi uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io l’offrirò in olocausto». 32 Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore glieli mise nelle mani. 33 Egli li sconfisse da Aroer fin verso Minnit, prendendo loro venti città, e fino ad Abel-Cheramin. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. 

34Poi Iefte tornò a Mispa, a casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con tamburelli e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli né altre figlie. 35Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”. 

36Ella gli disse: “Padre mio, se hai dato la tua parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. 37Poi disse al padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne”. 38Egli le rispose: “Va’!”, e la lasciò andare per due mesi. Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. 39Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli compì su di lei il voto che aveva fatto. Ella non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: 40le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni ogni anno.

Una dimostrazione di sfiducia

Come nel caso di Baraq, che pretende la certezza da Deborah, anche Iefte manifesta un incontentabile bisogno di sicurezze. Pretende di eliminare ogni rischio nella relazione che ha con il Signore. Il voto di Iefte è un atto di sfiducia con cui desidera fare pressione su Dio, piuttosto che accogliere il dono. Denota anche una buona dose di scempiaggine, dato che era facilmente immaginabile che fosse proprio la figlia, l’unica figlia, ad aprire il corteo festante con cui si usava accogliere il vincitore (cfr. Es 15,20; 1Sam 18,6). L’astuzia che Iefte aveva mostrato nell’arte della guerra si trasforma in faciloneria, in stoltezza.

La situazione, poi, si rivela paradossale. Iefte si illude di fare un atto religioso per il Dio d’Israele; ma in realtà fa un voto che è gradito al dio del popolo che vuole sconfiggere. Con il voto di Iefte, è il dio Molok di Ammon che appare vincente. Sotto l’apparenza di atto religioso si cela l’idolatria.

Il sacrificio del figlio

È d’obbligo, qui, fare il parallelo con il sacrificio di Isacco. In effetti questi due giovani, vissuti in tempi e situazioni tanto diversi, sono i soli in tutta la Bibbia ebraica a essere definiti con il termine yachìd, cioè “unico” (Gn 22,2; Gdc 11,34), a sottolineare il legame esclusivo con i rispettivi genitori. Isacco non è l’unico figlio di Abramo, ma a causa della promessa divina di trarre da lui una grande discendenza è come se lo fosse.

Nel racconto di Genesi 22 è Dio che mette alla prova Abramo, mentre adesso è Iefte che sfrontatamente mette alla prova Dio. Tentato in questo modo, Dio non risponde (Dt 6,16: Non tenterai il Signore Dio tuo»). Sul monte Moria l’immolazione del figlio non avviene, mentre in questo sconsiderato episodio la figlia – unica – viene uccisa. Dio non interviene a salvare la ragazza. La voce divina sembra ormai tacere davanti al degrado dilagante nell’epoca dei Giudici; sarà il lettore a dover trarre le sue conclusioni. O forse Dio ancora parla, ma non vi è alcuno che oda la sua voce?

Quello che era stato chiesto ad Abramo era solo la fede. Iefte invece aveva offerto un atto magico, una sorta di do ut des. Nel caso di Abramo si era compiuta la volontà di Dio; qui si compie invece la volontà dell’uomo. Le pratiche idolatre comportanti il sacrificio di bambini erano particolarmente abominevoli agli occhi di Dio (ad esempio Lv 20,1-5). “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco […] perché il Signore detesta chiunque faccia queste cose” (Dt 18,9-12). Tali pratiche, dichiara il Signore nel libro di Geremia, sono «una cosa che non ho mai comandato, di cui non ho parlato, né è mai entrata nella mia mente» (Ger 19,5).

Tra Isacco ed Abramo, proprio come tra la figlia di Iefte e suo padre, il testo riporta un solo dialogo. In tutti e due i casi, il discorso del figlio inizia con la parola avì (“padre mio”), e quello del padre con benì / bitì (figlio mio / figlia mia). Nella Genesi, però, Abramo dichiara prontamente hinnèni (“eccomi”), dimostrando al figlio una straziante vicinanza affettiva; mentre nel libro dei Giudici Iefte si rivolge alla figlia con un’esclamazione di dolore (11,35), attribuendole la colpa della sua rovina. Questo tipico atteggiamento extrapunitivo (la colpa è sempre degli altri) fa parte della personalità squilibrata del condottiero che si propone per condurre gli altri ma non è capace di condurre se stesso.

Il sacrificio di Isacco rappresenta la rinuncia, da parte di Abramo, a ciò che Dio gli aveva donato. L’esatto contrario del voto sconsiderato di Iefte, un voto che egli pronuncia chiedendo la vittoria, finendo poi per privarsi della sua unica figlia. Quella di Iefte è un’Aqedah al rovescio, un’Aqedah degenerata che non tiene conto delle leggi del Signore.

La portata del voto

C’è chi sostiene che il voto di Iefte si riferisse non al sacrificio cruento della figlia bensì alla consacrazione della sua vita al Signore. Così pretendevano Ibn Ezra e  e Levi Ben Gershon (1288–1344) nell’intento di salvare la reputazione di questo valoroso giudice, e alcuni moderni; ma per vari motivi non mi sembra che questa opinione sia da condividere. Quello di stracciarsi le vesti è un inequivocabile segno di lutto, un lutto anticipato per una morte inevitabile. Ciò conferma il fatto che si parli proprio di un sacrificio umano e non di una sorta di vita monastica. Inoltre, Isacco e la figlia di Iefte sono designati entrambi come un’olah, un olocausto da offrire a Dio (Gn 22,2; Gdc 11,31).

La scena, conforme ai costumi pagani dell’epoca cui anche Israele era continuamente tentato di adeguarsi, rimane tragica. Non dimentichiamo che siamo in un’età buia di passioni e di corruzione. Ricordiamo che nei sacrifici umani in terra di Canaan non venivano immolati anonimi schiavi. Venivano immolati i figli, specialmente i primogeniti (primizie del vigore del padre) e gli ultimogeniti (i più teneri e amati tra i figli). Il verbo shuv (“ritornare”, “ritirare”), compare continuamente in questo capitolo (ad es. vv. 8; 9; 31; 39): tutti nel racconto “ritornano” o “si ritirano”; eccetto, tragicamente, la parola data da Iefte a Dio, che non può essere ritrattata. A questo proposito Rashi, basandosi sul Midrash, attribuisce a Iefte e ai Saggi dell’epoca la colpa di non aver tentato di annullare il voto a causa del loro orgoglio.

L’odioso e assurdo sacrificio è consumato. Di questa delicata e generosa fanciulla non rimane neppure il nome. Segno di veridicità dell’episodio, che se fosse stato inventato non avrebbe mancato di assegnarle un nome fittizio e di tramandarlo ai posteri.

Una sofferenza voluta… ma non offerta

Nel nostro viaggio biblico nel mondo della sofferenza, ci siamo appena imbattuti in una sofferenza del tipo Te la sei proprio andata a cercare. Anche questo esiste nella Bibbia, dove non è solo presente Dio per quel tanto in cui entra in relazione con l’uomo, ma anche l’uomo stesso, con tutta la sua fragilità e manchevolezza e non solo con la sua fede e il suo amore.

Protagonista del libro dei Giudici è un’umanità che cade nel turbine delle più sciagurate passioni. E non siamo ancora arrivati al culmine, ci sarà ben di peggio.

Certamente, i racconti dei Giudici conservano più un valore simbolico che storico, volendo ammonire che non si debba scendere a compromessi con l’idolatria. La vicenda di Iefte in questo senso è esemplare. Non si può mescolare la fiducia in Dio con la pretesa di uno scambio alla pari; pena la perdita di ciò che è più caro, e in definitiva di se stesso, perché Iefte perdendo la figlia perde anche la sua speranza di una discendenza.