
I salmi 6 e 7, appartenenti al primo libro del Salterio ed a quella che si chiama «Collezione Jahvista» dei salmi di Davide, sono tipici salmi di supplica individuale.
I salmi 1 e 2 fungono da introduzione generale al Salterio. La sezione di salmi che va da 3 a 41 è considerata dai critici una collezione piuttosto antica che, insieme alla collezione «Elohista» (Salmi 42-89), avrebbe costituito una prima forma di salterio. Si chiamano «Salmi di Davide» (perché attribuiti a lui, tranne il 33), o «Collezione Jahvista» per la maggiore frequenza del Tetragramma rispetto al nome comune Elohim (272 volte contro 15). Non c’è, in questa denominazione, nessun riferimento alle tradizioni Jahvista ed Elohista che contribuirono alla formazione del libro della Genesi.
Questa prima collezione è fatta prevalentemente di suppliche individuali; nella «giornata» del Salterio rappresenta la notte, o l’inizio del giorno. Nella vita rappresenta il travaglio, la sofferenza. È però, sempre, un lamento che si sfoga in supplica nella fiducia e nel ringraziamento.
In tale contesto, facciamo la conoscenza dei salmi 6 e 7.
Suppliche individuali
Le suppliche individuali (cioè pronunciate da un singolo) costituiscono, come genere letterario, il più nutrito del Salterio. Sono 47, numero cui si aggiunge quello di un’altra dozzina di suppliche collettive, raggiungendo così la maggioranza assoluta del Salterio stesso. Nel primo libro dei salmi, esse sono ben 20 su 39, costituendo anche qui la maggior parte delle composizioni. Ecco l’elenco dei salmi classificabili nel genere letterario delle suppliche individuali:
Suppliche individuali o lamentazioni
Salmi 3; 4; 5; 6; 7; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 17; 25; 26; 27; 28; 35; 36; 38; 39; 40,12-18; 42-43; 51; 53; 54; 55; 56; 57; 58; 59; 61; 64; 69; 70; 71; 77; 86; 88; 102; 109; 120; 130; 140; 141; 142; 143.
Un articolo introduttivo QUI.
Salmo 6

La tradizione cristiana ne fa il primo dei sette «salmi penitenziali» (salmi 6; 32; 38; 51 = «Miserere»; 102; 130 = «De profundis»; 143). Per gli ebrei ashkenaziti (mitteleuropei) è il salmo che apre e chiude la giornata.
L’impostazione è quella, caratteristica, «triangolare» in cui tra l’orante e Dio sembra frapporsi un terzo incomodo:
Dio – Io – Essi (i nemici: non precisati).
È la lamentazione di un malato che teme la malattia come castigo di una colpa: «non colpirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore» (v. 2).
La sofferenza è vista alla luce della teoria classica della retribuzione, che la imputa ad un peccato. L’orante non protesta la sua innocenza, ma si appella solo alla misericordia di Dio. Il verbo che la designa è quello della grazia, CHaNaN.
Il motivo dell’intercessione perciò non è una qualche qualità dell’uomo, ma lo chesed divino, la fedeltà divina all’alleanza.
La rottura con Dio
Solo la morte è vista come rottura definitiva con Dio, in quanto il salmista è proteso alla guarigione fisica ed altro non rientra nella sua visuale. Dopo la morte non viene più considerata una possibilità di rapporto sociale, né di accesso al tempio, né di celebrazione di Dio (detta zikkaron = ricordoe todah = lode).
Nella morte non si ritiene esservi un annullamento dell’essere umano, ma un affievolimento terribile della sua relazione con Dio in una forma di esistenza divenuta larvale. L’ansia di restare in vita si spiega con il desiderio di restare in comunione con Dio. La malattia introduce l’uomo nel regno della morte: lo sheol, abisso sotterraneo chiamato anche sepolcro, polvere, ‘abaddon = luogo della distruzione, tenebre.
Il salmo però si conclude con un’affermazione di speranza: Dio ha udito il pianto dell’orante, ascolta la sua supplica, accoglie la sua preghiera.
Salmo 7

L’elemento dominante in questo salmo (vv. 4-6) è il cosiddetto giuramento d’innocenza (cfr. Giobbe 31), prassi giudiziaria a cui si ricorreva quando l’accusato non poteva addurre testimoni a sua difesa. Nel Libro dei morti egiziano, al cap. 125, si trova un modello di giuramento d’innocenza del defunto davanti al tribunale di Osiride:
«Non ho commesso colpe contro gli uomini, non ho maltrattato bovini,
non ho bestemmiato Dio, non ho colpito il misero, non ho affamato,
non ho ucciso…».
Il titolo del salmo parla di una notizia portata a Davide da Kush, il Beniaminita. Parleremo in seguito del significato dei titoli dei salmi. Il personaggio qui menzionato è sconosciuto. Si può identificare con un nemico di Davide, oppure con l’Etiope che gli annunziò la morte di Assalonne (2 Sam 18,21-31; Kush infatti, in ebraico, è il nome dell’Etiopia). Se è questa la circostanza storica cui il salmo viene collegato, non trova comunque riscontro nel testo, che pare essere invece un rimaneggiamento post-esilico di spunti più arcaici. Ne fanno fede i numerosi aramaismi, che fanno escludere che si possa trattare dell’epoca di Davide.