Sul Natale
I Padri della Chiesa sul Natale.
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 6 per il Natale 2-3. 5)
L’infanzia, che il Figlio di Dio non ha ritenuto indegna della sua maestà, si sviluppò con il crescere dell’età nella piena maturità dell’uomo. Certo, compiutosi il trionfo della passione e della risurrezione, appartiene al passato tutto l’abbassamento da lui accettato per noi: tuttavia la festa d’oggi rinnova per noi i sacri inizi di Gesù, nato dalla Vergine Maria.
E mentre celebriamo in adorazione la nascita del nostro Salvatore, ci troviamo a celebrare il nostro inizio: la nascita di Cristo segna l’inizio del popolo cristiano; il natale del Capo è il natale del Corpo.
Il Natale del Capo è il nostro Natale
Sebbene tutti i figli della Chiesa ricevano la chiamata ciascuno nel suo momento e siano distribuiti nel corso del tempo, pure tutti insieme, nati dal fonte battesimale, sono generati con Cristo in questa natività, così come con Cristo sono stati crocifissi nella passione, risuscitati nella risurrezione, collocati alla destra del Padre nell’ascensione.
Ogni credente, che in qualsiasi parte del mondo viene rigenerato in Cristo, rompe i legami con la colpa d’origine e diventa uomo nuovo con una seconda nascita. Ormai non appartiene più alla discendenza del padre secondo la carne, ma alla generazione del Salvatore, che si è fatto figlio dell’uomo perché noi potessimo divenire figli di Dio. Se egli non scendesse a noi in questo abbassamento della nascita, nessuno con i propri meriti potrebbe salire a lui.
La grandezza stessa del dono ricevuto esige da noi una stima degna del suo splendore. Il beato Apostolo ce l’insegna: Non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato (cfr. 1 Cor 2, 12). La sola maniera di onorarlo degnamente è di offrirgli il dono stesso ricevuto da lui.
Ora, per onorare la presente festa, che cosa possiamo trovare di più confacente, fra tutti i doni di Dio, se non la pace, quella pace che fu annunziata la prima volta dal canto degli angeli alla nascita del Signore?
Cerchiamo la pace
La pace genera i figli di Dio, nutre l’amore, crea l’unione; essa è riposo dei beati, dimora dell’eternità. Suo proprio compito e suo beneficio particolare è di unire a Dio coloro che separa dal mondo del male.
Quelli dunque che non da sangue né da volere di carne né da volere d’uomo, ma da Dio sono nati (cfr. Gv 1, 13), offrano al Padre i loro cuori di figli uniti nella pace.
Tutti i membri della famiglia adottiva di Dio si incontrino in Cristo, primogenito della nuova creazione, il quale venne a compiere non la sua volontà, ma quella di chi l’aveva inviato.
Il Padre infatti nella sua bontà gratuita adottò come suoi eredi non quelli che si sentivano divisi da discordie e incompatibilità vicendevoli, bensì quelli che sinceramente vivevano ed amavano la loro mutua fraterna unione. Infatti quanti sono stati plasmati secondo un unico modello, devono possedere una comune omogeneità di spirito. Il natale del Signore è il natale della pace.
Lo dice l’Apostolo: Egli è la nostra pace, egli che di due popoli ne ha fatto uno solo (cfr. Ef 2, 14), perché, sia giudei sia pagani, «per mezzo di lui possiamo presentarci al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 18).
(Disc. 3 per l’Epifania, 1-3. 5)
La Provvidenza misericordiosa, avendo deciso di soccorrere negli ultimi tempi il mondo che andava in rovina, stabilì che la salvezza di tutti i popoli si compisse nel Cristo.
Un tempo era stata promessa ad Abramo una innumerevole discendenza che sarebbe stata generata non secondo la carne, ma nella fecondità della fede: essa era stata paragonata alla moltitudine delle stelle perché il padre di tutte le genti si attendesse non una stirpe terrena, ma celeste.
Tutti i popoli adorino il Creatore
Entri, entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell’universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque in Israele sia grande il suo nome (cfr. Sal 75, 2).
Figli carissimi, ammaestrati da questi misteri della grazia divina, celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l’inizio della chiamata alla fede di tutte le genti. Ringraziamo Dio misericordioso che, come afferma l’Apostolo, «ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12-13).
Risplendete come figli della luce
L’aveva annunziato Isaia: Il popolo dei Gentili, che sedeva nelle tenebre, vide una grande luce e su quanti abitavano nella terra tenebrosa una luce rifulse (cfr. Is 9, 1). Di essi ancora Isaia dice al Signore: Popoli che non ti conoscono ti invocheranno, e popoli che ti ignorano accorreranno a te (cfr. Is 55, 5).
Abramo vide questo giorno e gioì (cfr. Gv 8, 56). Gioì quando conobbe che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, cioè nel Cristo, e quando intravide che per la sua fede sarebbe diventato padre di tutti i popoli. Diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto il Signore aveva promesso lo avrebbe attuato (Rm 4, 20-21).
Questo giorno cantava nei salmi Davide dicendo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome» (Sal 85, 9); e ancora: «Il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia» (Sal 97, 2).
Tutto questo, lo sappiamo, si è realizzato quando i tre magi, chiamati dai loro lontani paesi, furono condotti da una stella a conoscere e adorare il Re del cielo e della terra. Questa stella ci esorta particolarmente a imitare il servizio che essa prestò, nel senso che dobbiamo seguire, con tutte le nostre forze, la grazia che invita tutti al Cristo.
In questo impegno, miei cari, dovete tutti aiutarvi l’un l’altro. Risplenderete così come figli della luce nel regno di Dio, dove conducono la retta fede e le buone opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo che con Dio Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.
SAN LEONE MAGNO, PAPA
Celebre per aver dissuaso Attila, nel 452, dal dirigersi su Roma per invaderla, tre anni dopo papa Leone è ancora il Grande che disarmato ferma alle porte di Roma i Vandali d’Africa guidati dal re Genserico. Grazie al suo intervento, i barbari saccheggiano la città, ma non la incendiano, e la popolazione è salva.
Leone si impegna con coraggio per la pace, ma anche per la dottrina della fede. Ispira il Concilio di Calcedonia che proclamerà l’unione in Cristo delle due nature – umana e divina. Il suo intervento al Concilio avviene attraverso un testo fondamentale, il Tomo a Flaviano, vescovo di Costantinopoli. Oltre a questo, lascia alla storia quasi 100 sermoni e circa 150 lettere, scritte da teologo ma anche da pastore. In una Roma piagata da carestie, povertà, ingiustizie e superstizioni, anima le opere di carità.
Era toscano: nato nella Tuscia verso il 390, divenne diacono della Chiesa di Roma intorno al 430. Nel 440 l’imperatrice Galla Placidia lo incaricò di pacificare la Gallia, contesa tra il generale Ezio e il prefetto del pretorio Albino. Pochi mesi dopo, alla morte di papa Sisto III, Leone gli succede come 45° papa della storia. La consacrazione a Pontefice avviene il 29 settembre del 440.
Tanti primati
Il suo pontificato durò ventuno anni, registrando diversi primati: fu il primo vescovo di Roma a portare il nome di Leone; il primo ad essere chiamato “Magno”; il primo papa di cui ci sia giunta la predicazione. È anche uno dei due soli Sommi Pontefici, con Gregorio Magno, ad aver ricevutoil titolo di “Dottore della Chiesa”, nel 1754 per volere di Benedetto XIV. Scomparso il 10 novembre 461, secondo alcuni è stato anche il primo Papa a essere sepolto all’interno della Basilica Vaticana.
Dalle «Lettere» di sant’Atanasio, vescovo
(Ad Epittèto 5-9)
Il Verbo di Dio, come dice l’Apostolo, «della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,16.17) e prendere un corpo simile al nostro. Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi.
Perciò la Scrittura quando parla della nascita del Cristo dice: «Lo avvolse in fasce» (Lc 2,7). Per questo fu detto beato il seno da cui prese il latte. Quando la madre diede alla luce il Salvatore egli fu offerto in sacrificio.
Gabriele aveva dato l’annunzio a Maria con cautela e delicatezza. Però non le disse semplicemente colui che nascerà in te, perché non si pensasse a un corpo estraneo a lei, ma: da te (cfr. Lc 1,35), perché si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei.
Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l’Apostolo: Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità (cfr. 1 Cor 15,53).
Il Salvatore fu veramente uomo
Tuttavia ciò non è certo un mito, come alcuni vanno dicendo. Lungi da noi un tale pensiero. Il nostro Salvatore fu veramente uomo e da ciò venne la salvezza di tutta l’umanità. In nessuna maniera la nostra salvezza si può dire fittizia. Egli salvò tutto l’uomo, corpo e anima. La salvezza si è realizzata nello stesso Verbo.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; vero, perché del tutto identico al nostro; infatti Maria è nostra sorella poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
Ciò che leggiamo in Giovanni «il Verbo si fece carne» (Gv 1,14), ha dunque questo significato, poiché si interpreta come altre parole simili.
Sta scritto infatti in Paolo: Cristo per noi divenne lui stesso maledizione (cfr. Gal 3,13). L’uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: dalla condizione di mortalità divenne immortale; mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo.
Sant’Atanasio
Nato ad Alessandria d’Egitto nel 295, nella Chiesa cattolica è annoverato tra i grandi dottori della Chiesa. Tutta la sua vita è legata all’impegno che profuse nella lotta contro le eresie trinitarie.
Partecipò da diacono con il vescovo Alessandro al Concilio di Nicea del 325 per discutere sulla tesi di Ario che metteva in dubbio la natura divina di Gesù Cristo considerandolo una creazione del Padre. Il Concilio formulò la definizione dogmatica della consustanzialità del Figlio al Padre, ovvero della medesima sostanza divina di entrambi.
Per tutta la vita Atanasio difese questa fede e proprio per questo subì anche l’esilio venendo allontanato per la prima volta nel 335 dalla sede vescovile cui era stato eletto nel 328 dopo la morte di Alessandro. L’esilio di Atanasio si protrasse, con fasi alterne man mano che si succedevano i vari imperatori, finché terminò nel 361 alla morte dell’imperatore Costanzo.
Atanasio ebbe così la possibilità di tornare ad Alessandria e riprendere possesso della sede vescovile. Con il concilio d’oriente del 362 terminarono tutte le controversie dogmatiche, riconfermando i decreti del Concilio di Nicea. Atanasio morì ad Alessandria d’Egitto il 2 maggio del 373.
Dai «500 Capitoli» di San Massimo il Confessore
(Centuria 1, 8-13)
Il Verbo di Dio fu generato secondo la carne una volta per tutte. Ora, per la sua benignità verso l’uomo, desidera ardentemente di nascere secondo lo spirito in coloro che lo vogliono e diviene bambino che cresce con il crescere delle loro virtù. Si manifesta in quella misura di cui sa che è capace chi lo riceve. Non restringe la visuale immensa della sua grandezza per invidia e gelosia, ma saggia, quasi misurandola, la capacità di coloro che desiderano vederlo.
Così il Verbo di Dio, pur manifestandosi nella misura di coloro che ne sono partecipi, rimane tuttavia sempre imperscrutabile a tutti, data l’elevatezza del mistero. Per questa ragione l’Apostolo di Dio, considerando con sapienza la portata del mistero, dice: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (Eb 13, 8), intendendo dire in tal modo che il mistero è sempre nuovo e non invecchia mai per la comprensione di nessuna mente umana.
Il Verbo incarnato
Cristo Dio nasce e si fa uomo, prendendo un corpo dotato di un’anima intelligente, lui, che aveva concesso alle cose di uscire dal nulla. Dall’oriente una stella che brilla in pieno giorno guida i magi verso il luogo dove il Verbo ha preso carne, per dimostrare misticamente che il Verbo, contenuto nella legge e nei profeti, supera ogni conoscenza dei sensi e conduce le genti alla suprema luce della conoscenza.
Infatti la parola della legge e dei profeti, a guisa di stella, rettamente intesa, conduce a riconoscere il Verbo incarnato in coloro che in virtù della grazia sono stati chiamati secondo il beneplacito divino.
Dio e uomo
Dio si fa perfetto uomo, non cambiando nulla di quanto è proprio della natura umana, tolto, si intende, il peccato, che del resto non le appartiene. Si fa uomo per provocare il dragone infernale avido e impaziente di divorare la sua preda, cioè l’umanità del Cristo.
Cristo, in effetti, gli dà in pasto la sua carne. Quella carne però doveva tramutarsi per il diavolo in veleno. La carne abbatteva totalmente il mostro con la potenza della divinità che in essa si celava. Per la natura umana, invece, sarebbe stata il rimedio, perché l’avrebbe riportata alla grazia originale con la forza della divinità in essa presente.
Come infatti il dragone, avendo istillato il suo veleno nell’albero della scienza, aveva rovinato il genere umano, facendoglielo gustare, così il medesimo, presumendo divorare la carne del Signore, fu rovinato e spodestato per la potenza della divinità che era in essa.
Ma il grande mistero dell’incarnazione divina rimane pur sempre un mistero. In effetti come può il Verbo, che con la sua persona è essenzialmente nella carne, essere al tempo stesso come persona ed essenzialmente tutto nel Padre? Così come può lo stesso Verbo, totalmente Dio per natura, diventare totalmente uomo per natura? E questo senza abdicare per niente né alla natura divina, per cui è Dio, né alla nostra, per cui è divenuto uomo?
San Massimo il Confessore
Il soprannome di “Confessore” (della fede) gli venne dal suo assiduo impegno per difendere l’ortodossia cristiana, minacciata in quel momento storico dalla teoria detta monotelismo; impegno che lo portò a dare la vita.
Secondo tale dottrina, in Cristo vi erano sì le due nature umana e divina, ma la volontà divina predominava su quella umana, facendone un uomo incompleto.
Massimo era nato nel 580 a Costantinopoli da famiglia nobile, che gli procurò una accurata educazione. Divenne perciò un importante funzionario della corte imperiale, ma ad un certo punto lasciò gli incarichi e si ritirò in un monastero vicino al Bosforo. Da qui, a causa dell’invasione persiana del 626, si allontanò per trasferirsi prima a Creta, poi a Cipro e infine in Africa.
Fu lì che conobbe la nuova eresia del monotelismo, che si stava diffondendo, e si trovò immerso nelle dispute teologiche del tempo in cui s’impegnò con tutto il peso della sua autorità di teologo.
Nel corso di queste dispute, che per l’ingerenza degli imperatori avevano anche un carattere politico, il papa S. Martino I (649-655) subì un processo nel 653 e fu inviato in esilio nel Chersoneso dove morì dopo due anni.
Anche a Massimo toccò uguale sorte, venendo nel 655 condannato all’esilio. Nel 662, avendo rifiutato di rinnegare la propria fede, fu flagellato, mutilato della mano con cui aveva scritto la sua difesa della fede e della lingua con cui l’aveva predicata ed esiliato a vita nella Colchide, dove presto morirà sfinito dai supplizi insieme a due discepoli.
Dai «Discorsi» di san Pietro Crisòlogo, vescovo
(Disc. 160)
Benché nel mistero stesso dell’Incarnazione del Signore i segni della sua divinità siano stati sempre chiari, tuttavia la solennità odierna ci manifesta e ci svela in molte maniere che Dio è apparso in corpo umano, perché la nostra natura mortale, sempre avvolta nell’oscurità, non perdesse, per ignoranza, ciò che ha meritato di ricevere e possedere per grazia.
Infatti colui che ha voluto nascere per noi, non ha voluto rimanere a noi nascosto; e perciò si manifesta in questo modo, perché questo grande mistero di pietà non diventi occasione di errore.
Oggi i magi, che lo ricercavano splendente fra le stelle, lo trovano che vagisce nella culla. Oggi i magi vedono chiaramente, avvolto in panni, colui che tanto lungamente si accontentarono di contemplare in modo oscuro negli astri. Oggi i magi considerano con grande stupore ciò che vedono nel presepio: il cielo calato sulla terra, la terra elevata fino al cielo, l’uomo in Dio, Dio nell’uomo, e colui che il mondo intero non può contenere, racchiuso in un minuscolo corpo.
Vedendo, credono e non discutono e lo proclamano per quello che è con i loro doni simbolici. Con l’incenso lo riconoscono Dio, con l’oro lo accettano quale re, con la mirra esprimono la fede in colui che sarebbe dovuto morire.
Da questo il pagano, che era ultimo, è diventato primo, perché allora la fede dei gentili fu come inaugurata da quella dei magi.
SAN PIETRO CRISOLOGO
Nato alla fine del IV secolo, ricevette il battesimo e fu educato da Cornelio vescovo di Imola, il quale lo avviò a studi letterari e giuridici a Ravenna e a Bologna. Intorno al 433 fu consacrato vescovo di Ravenna, capitale dell’impero, dal papa Sisto III in persona.
Durante il suo vescovado fu edificata la prima chiesa cristiana a Ravenna, in quanto fino al 378 la diocesi aveva avuto sede a Classe. Ebbe il sostegno di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, sorella dell’imperatore Onorio, madre e tutrice dell’imperatore Valentiniano III.
Per le sue parole ispirate, col loro calore umano, l’eloquenza pastorale e lo schietto vigore della fede, parole pervenute anche a noi in circa 180 sermoni, ebbe il soprannome di “Crisologo”, che significa “Parola d’oro”. Dall’Oriente lo consultò Eutiche, nel periodo della controversia circa le due nature in Gesù Cristo. Pietro lo rimandò alla decisione del papa Leone I «per mezzo del quale il beato Pietro continua a insegnare, a coloro che la cercano, la verità della fede». Morì nel 450.