Lettura continua della Bibbia. Giobbe: i dialoghi si interrompono

Giobbe e gli amici (1919). Di Hult, Adolf, 1869-1943. No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42758918

I dialoghi si interrompono, e in modo insoddisfacente. Tanto che l’ultima serie di dialoghi, dopo l’intervento di Elifaz, è stata probabilmente manomessa da un ultimo revisore e redattore che ha forse voluto attenuare la crudezza delle espressioni. È possibile che nel discorso di Giobbe si mescolino frase tratte, invece, dalle parole di Bildad (26,5-14); inoltre, manca un terzo intervento di Zofar (che qualcuno ravvisa in 27,13-23 e 24,18-24). Questa situazione di taglio e di confusione del testo finale dei dialoghi denota un intento censorio nei confronti della durezza di Giobbe. Al suo culmine, il discorso rischia di presentare addirittura aspetti blasfemi! Questo è il motivo per cui sono stati probabilmente operati tagli pesanti che hanno deformato il testo al punto di renderlo talvolta illogico.

Bildad: «Come può essere giusto un uomo davanti a Dio?» (25,1-6 [e 26,5-14?])

L’ultimo discorso di Bildad è una specie d’inno incompleto (soli 6 versetti) rispetto all’originale. Giobbe, per quanto voglia, non può minare l’onnipotenza di Dio: ogni uomo davanti a Dio è un miserabile (25,2-9). Se si vuole attribuire a Bildad anche il brano 26,5-14, gli si fa altresì affermare l’universale sovranità di Dio che si estende fino nel soggiorno dei morti e al dominio sui mostri primordiali, personificazioni delle potenze del male. Di fronte a tale potenza l’uomo, minuscola creatura, non può che tacere. Ma anche Giobbe può dire la stessa cosa, pur continuando ad accusare l’Onnipotente di arbitrarietà e di ingiustizia.

C’è chi ravvisa in alcuni frammenti (27, 13-23 e 24, 18-24) un intervento conclusivo di Zofar, che nello stato attuale del testo, quando dovrebbe parlare per la terza volta, tace. Gli vengono attribuiti allora questi frammenti che non risultano coerenti col pensiero di Giobbe, e anche per ripristinare la struttura ternaria (tre serie di dialoghi con i tre amici, in cui il terzo intervento di Zofar manca). Tali fenomeni di cesura, d’instabilità e di confusione della parte finale dei dialoghi rivelano l’intervento, probabilmente censorio, degli editori e redattori definitivi del libro. La durezza di certi interventi di Giobbe, soprattutto ora che il discorso sta per raggiungere il suo apice, rasenta aspetti giudicabili blasfemi. Per evitare di scandalizzare i lettori si è preferito mutilare i testi. In questi frammenti, sarebbe Zofar a riprendre la descrizione della sorte dell’empio, destinato ad una improvvisa tragedia come è stato per Giobbe.

Giobbe: «La mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni» (26-27)

Eppure, c’è questa caparbietà, questa cocciutaggine di Giobbe che non si arrende, e non vuol lasciar perdere Dio, questo Dio che sembra volerlo uccidere, ma al quale Giobbe si attacca tenacemente.

27,5 «Lungi da me che io vi dia ragione;

fino all’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità.

6 Terrò fermo alla mia innocenza, senza cedere;

la mia coscienza non mi rimprovera uno solo dei miei giorni».

Naturalmente, questa coscienza di innocenza è relativa, perché nessun uomo può considerarsi integralmente giusto davanti a Dio, però sostiene Giobbe nei confronti dell’empio, che schiaccia i deboli, opprime l’orfano e la vedova, e che tuttavia Dio non punisce: sembra piuttosto punire coloro che sono di retto comportamento.

Giobbe inizialmente aveva ripreso in chiave ironica l’intervento di Bildad considerandolo espressione di vuota sapienza che nulla può apportare al problema che lacera il sofferente (26,2-4). Ricorre infine al giuramento d’innocenza che si pronuncia di solito in sede processuale (27,2-6). Gli amici non lo hanno convinto delle sue colpe, anzi ciò che hanno ottenuto è una proclamazione formale. Ad essa corrisponde la maledizione contro ogni avversario (27,7-10).

I dialoghi si interrompono

Si chiude così la sezione dei dialoghi di Giobbe con gli amici. Non vi è stato nessuno sviluppo, il problema (e con esso la sofferenza) è rimasto tale e quale, in stallo fra la saccenteria di chi pontifica sulla pelle altrui e la disperata difesa di una innocenza cui nessuno vuol credere.

Questa ampia sezione si sospende dunque in una situazione di stallo: ognuno continua a ripetere le proprie convinzioni, gli amici quella tradizionale della sofferenza come punizione dell’iniquità, Giobbe la sua protesta di innocenza e la sua accusa di ingiustizia nei confronti di Dio. La partita si chiude in parità, zero a zero. Nessuno ha segnato un vantaggio sull’altro, e Dio tace.

Le due spiegazioni tradizionali finora fornite del problema della sofferenza del giusto si rivelano inefficaci: quella dell’equivalenza dolore = punizione, totalmente respinta da Giobbe e dall’evidenza dei fatti, e quella della sofferenza come prova momentanea messa in scena nella cornice narrativa, non funzionale se il lieto fine non c’è.

No, non abbiamo ancora ricavato un messaggio utile da questo secondo quadro del libro di Giobbe, se non la spietata sincerità con cui il protagonista accusa Dio di essergli inspiegabilmente nemico; il suo grido incessante che vuole a tutti i costi una risposta.

Sta per aprirsi un altro atto del dramma dell’Uomo sofferente.