
La nuova dignità di Giuseppe e il suo look egiziano rimarranno sempre intrecciati. Giuseppe riceverà l’anello con sigillo del faraone e l’uso di un carro come secondo in comando, e allo stesso tempo sarà vestito con abiti adeguati e indosserà la tipica collana d’oro egizia. Ma l’egittificazione di Giuseppe va ancora oltre:
«Il faraone diede a Giuseppe il nome di Zafenat-Paneach [= Dio parla e vive]; e gli diede in moglie Asenat [= Quella che appartiene a Neith], figlia di Potifera [= Colui che Ra ha dato], sacerdote di On. Così Giuseppe divenne capo del paese d’Egitto» (Genesi 41,45).
Come parte del suo incarico di governatore, il faraone cambia il nome di Giuseppe in uno egiziano e gli fa sposare non solo una donna egiziana nativa, ma addirittura la figlia di un sacerdote di On (Eliopoli), uno dei centri di adorazione di Ra, il dio del sole. Giuseppe aveva presentato al faraone il suo dio, e il faraone ora presenta a Giuseppe il dio dell’Egitto. Tutto questo senza che il testo mostri alcun cenno di critica.
Giuseppe: Il problema religioso verso una universalizzazione?
Il nome di Giuseppe, Yoseph, o nella sua forma lunga Yehoseph (Sal 81,6), col significato di YHWH ha aggiunto, inizia con l’elemento teoforico Yaho, cioè il nome della divinità israelita, YHWH. Il nome del suo suocero eigiziano, Potifera, termina a sua volta con un elemento teoforico, Ra: Colui che Ra ha dato. Si incontrano, in questa nuova famiglia, due diverse divinità, il Dio di Israele e il dio-sole dell’Egitto. Ma né Giuseppe né il Faraone nel loro dialogo hanno fatto ricorso al nome personale delle loro divinità; hanno usato semplicemente il termine generico elohim, dio.
Il testo non parla di un Dio egizio o di un Dio israelita, ma semplicemente di Dio. Quindi, il testo crea un terreno religioso comune tra Giuseppe il forestiero, l’ebreo migrante, e il faraone egiziano ospitante. Un ebreo e un egiziano, diversi etnicamente, religiosamente e socio-economicamente, vedono entrambi l’altro come un rappresentante di Dio nella storia, e sono disposti a lavorare insieme per affrontare il disastro imminente della carestia (Gen 41,28,39).
Giuseppe: Il suo problema religioso è diverso da quello di Daniele
Il modo in cui Giuseppe fa i suoi riferimenti al più generico elohim appare in contrasto con il modo in cui Daniele parlerà di Dio con Nabucodonosor. Il libro di Daniele è un’opera ampiamente successiva alla storia di Giuseppe: la sua forma finale prenderà forma solo nel periodo ellenistico, dopo le persecuzioni religiose di Antico IV Epifane. È come se fosse in parte rieditata la storia di Giuseppe, in particolare nel sogno di Nabucodonosor nel capitolo 2, ma con differenze significative per quanto riguarda il problema religioso.
Daniele a Babilonia
Come Giuseppe, Daniele interpreta i sogni di un re straniero, che è “turbato” dal suo sogno, come lo era il Faraone, e i cui consiglieri non sono in grado di farlo, come lo erano quelli del Faraone. Tuttavia, a differenza di Giuseppe, Daniele non si limita a parlare di Dio in modo universale, ma sembra voler informare Nabucodonosor dell’esistenza del vero Dio in cielo, cioè il Dio del popolo di Daniele, a cui Daniele può accedere e i consiglieri di Nabucodonosor no (Dan 2,19-23):
«Il mistero di cui il re ha indagato non può essere spiegato né dai sapienti, né dagli esorcisti, né dai maghi, né dagli indovini. Ma c’è un Dio nel cielo che rivela i misteri, ed egli ha fatto conoscere al re Nabucodonosor ciò che avverrà alla fine dei giorni…» (Daniele 2,27-28).
L’affermazione di Daniele, secondo cui il suo Dio è il Dio supremo che tutti dovrebbero adorare, non sfugge a Nabucodonosor, che dopo aver ascoltato l’interpretazione di Daniele dichiara:
«In verità il tuo Dio deve essere il Dio degli dèi, il Signore dei re e il rivelatore dei misteri, per averti reso capace di rivelare questo mistero» (Daniele 2,47).
L’idea che il Dio di Israele regni supremo è un ritornello costante nelle storie di Daniele: Daniele e i suoi amici non mangeranno il cibo (impuro) del palazzo (cap. 1), i suoi amici non si inchineranno a una statua (cap. 3), e Daniele si inchina e prega YHWH, anche quando questo è stato dichiarato illegale (cap. 6). Il libro di Daniele rimarca come gli ebrei siano diversi dalle persone tra cui vivono e come questa differenza debba essere mantenuta, e Dio li proteggerà.
Giuseppe in Egitto
La storia di Giuseppe esprime un’idea molto diversa su come Giuseppe, e per estensione gli Israeliti, dovrebbero comportarsi in Egitto. Giuseppe cerca di adattarsi. Non solo indossa abiti egiziani e prende un nome egiziano, ma è persino disposto a parlare di Dio al Faraone in modo tale da trovare un terreno generale. Giuseppe e il faraone non competono su quale Dio sia più potente, ma trovano un livello comune in cui ognuno vede l’altro come uno strumento attraverso cui Dio si manifesta. Questo atteggiamento si inquadra nel tema più ampio del modo in cui gli Israeliti possono sopravvivere, e persino prosperare, come minoranza nella diaspora.
Una comunità nella diaspora
Giuseppe, che era un sognatore nella terra degli Ebrei, diventa un interprete di sogni in Egitto, e questo talento gli servirà per ottenere una posizione di preminenza, che alla fine userà per salvare sia il suo nuovo paese, l’Egitto, che tutta la sua famiglia. Il trauma della schiavizzazione, della migrazione e della prigionia non lo blocca. Come molti migranti forzati, Giuseppe si trova di fronte a una scelta: adattarsi a qualsiasi cosa le circostanze gli presentino o prendere l’iniziativa e trasformare questi ostacoli in passi verso il ripristino della propria dignità. Giuseppe, quindi, funge da modello per gli Israeliti della diaspora su come relazionarsi con la cultura del paese ospitante: il problema religioso non è in gioco perché ci si muove ad un livello di rispetto reciproco.
Come integrarsi in una società straniera è un problema drammatico per coloro che sono costretti a migrare e si confrontano con differenze culturali, religiose e socio-economiche nella nuova terra cui vivono. È la loro capacità di commisurarsi con tali differenze a consentire loro di ricostruire un nuovo significato per le loro vite.
La vicenda di Giuseppe rappresenta un caso esemplare ma ideale: il faraone mette da parte le differenze etniche e socio-economiche in vista di un bene comune. Il successo di questo dialogo dipende in parte dalla capacità dei migranti di prendere iniziative, ma anche dall’apertura e dalla volontà della comunità ospitante di usare il suo potere per integrare lo straniero.
Nel caso di Daniele, invece, è in gioco la possibilità stessa di professare la propria fede, dato il contesto di persecuzione religiosa (la prima subita da Israele) in cui il libro prende forma. Sono tempi molto diversi da quelli in cui la tolleranza religiosa non era in questione.