Giuseppe e i suoi fratelli: cambiamo argomento. Lasciamo a questo punto la lunga storia di Giacobbe, ormai riconciliato con il fratello, però a debita distanza. Lasciamo la storia di Giacobbe per passare a quella dei figli, avuti da due mogli e due schiave, con netta predilezione per i figli dell’amata Rachele, Giuseppe e Beniamino. Sarà proprio questa predilezione, per non dire favoritismo, a innescare la violenta gelosia dei fratellastri nei confronti del preferito del padre, Giuseppe. Beniamino è ancora piccolino e l’amore per lui non li esaspera; li indigna invece la propensione di Giacobbe per Giuseppe, che oltre tutto ha anche il cattivo gusto di fare sogni profetici sul proprio conto e di raccontarli.
Quando capita l’occasione, la sorte di Giuseppe è segnata. I fratelli se ne sbarazzano prima con l’intento di ucciderlo, poi di abbandonarlo in una cisterna asciutta, infine di venderlo a mercanti che vanno in Egitto. La situazione del testo è molto intricata, derivando dalla cucitura di almeno due tradizioni narrative, forse tre; in ogni caso, sia come sia nei particolari, il ragazzo viene condotto in Egitto come schiavo (Gn 37).
Lì avrà avventure e disavventure, da cui scamperà sempre per la sua abilità nel rendersi utile, anzi indispensabile nei confronti dei suoi padroni. La sua stessa bellezza lo metterà nei guai, attirando su di sé la bramosia della moglie del padrone. Integerrimo nel comportamento, Giuseppe è il prototipo del giusto ingiustamente perseguitato, per cui la sua storia suscita la domanda: perché tutte queste sventure proprio a lui? I dieci fratelli maggiori, giunti in Egitto quando Giuseppe ne è divenuto vice re, per scampare dalla carestia, e accusati di essere spie, interpreteranno le proprie sofferenze come castigo divino per aver tradito il fratello minore (42,21-22). Giuseppe, però, soffre per i peccati degli altri.
Particolare degno di rilievo: Dio, nella saga di Giuseppe, non compare mai. Cioè: non appare, non parla. Sembra assente dalle vicende umane. Comprenderemo però, nella lettura dei testi, che la sua presenza c’è, in forma diversa: nella forma invisibile che oggi chiamiamo Provvidenza. Agisce attraverso gli eventi, parla attraverso la sapienza del cuore. Silenziosamente, intangibilmente. Ma c’è.
Il Dio dietro le quinte
Per questo il racconto delle vicende di Giuseppe è tanto moderno; perché presenta un uomo che appare lasciato solo, abbandonato agli eventi, senza avere una parola di conforto dal Dio in cui pone la sua fede.
«Il Signore era con lui e il Signore dava successo a tutto quanto egli faceva» (39,23). Il Signore è con lui e gli dà sapienza, ma non interviene in un modo sensibile che Giuseppe possa avvertire. È la fiducia che sostiene Giuseppe.
Il bandolo della matassa sarà lui stesso, alla fine, a trovarlo, così come era stato abile a decifrare gli strani sogni degli egiziani.
«Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù; perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio» (45,4-8).
La sofferenza di uno, di un giusto per di più, è funzionale alla salvezza dei molti. Giuseppe, tradito dai fratelli e consegnato alla schiavitù, è in qualche modo prefigurazione del sacrificio di Cristo consegnato alla croce dagli uomini suoi fratelli. La sua è già una sofferenza feconda, che, benché penosa, è portatrice non di morte ma di vita. Un invito a fidarsi di Dio.