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Il cuore della risposta di Giobbe è di per sé una frase sola (42,5 s.):
«Io avevo notizia di te per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto.
Perciò mi ricredo e mi pento sulla polvere e sulla cenere».
Pochissime parole, che esprimono il tacere di Giobbe di fronte alla grandezza del mistero di Dio. Chiaramente il suo è un messaggio esistenziale. Giobbe cresce: Dio non l’ha convinto, il male non viene eliminato, ma Giobbe cambia il suo atteggiamento interiore e capisce di dover lasciare al Signore la libertà di agire.
Dio non si può costruire ad immagine dell’uomo: noi tendiamo a costruirci un Dio a nostra immagine, un Dio che sia un po’ al nostro servizio. Ci piacerebbe pregare ed avere ciò che vogliamo. È il castello di carte di cui parla C.S. Lewis nel suo Diario di un dolore. Dio non è così, è un Dio nascosto, non c’è spazio per il meccanicismo, per il do ut des («io do tanto e devo ricevere tanto», «io sono bravo e allora devo essere premiato», «sono così e così e allora non devo avere problemi troppo grossi», ecc.).
Una fede disinteressata
C’è un’espressione caratteristica che compare poche volte, ma in modo significativo nel libro di Giobbe: quando il satana si presenta a Dio nel cap. 1 dopo essere stato ad ispezionare la terra ed aver visto Giobbe, al quale va tutto bene, è timorato di Dio, pone il dubbio:
«Forse che Giobbe teme Dio per niente?
Non hai forse protetto con uno steccato lui, la sua casa e tutto ciò che possiede?
Tu hai benedetto le sue imprese e i suoi greggi si dilatano nella regione.
Ma stendi la tua mano e colpisci i suoi beni e vedrai come ti benedirà in faccia!» (1,9-11).
Cioè, Giobbe ha timor di Dio perché tutto gli va bene, è interessato nella sua pietà, nella sua religiosità. Questo è il dubbio che viene insinuato dal satana. E anche dopo, quando Giobbe perde tutti i suoi averi, però gli rimane la salute, il satana dice:
«Pelle per pelle! Tutto quanto possiede l’uomo è pronto a darlo per la sua vita.
Ma stendi, di grazia, la tua mano e colpisci le sue ossa e la sua carne;
vedrai se non ti benedirà in faccia!» (2,4-5).
Viene nuovamente insinuato che la religiosità di Giobbe sia interessata. Il libro di Giobbe afferma invece questo: che il «timor di Dio», l’atteggiamento «religioso» che lega l’uomo a Dio, deve essere gratuito.
Nella visione cristiana, Dio salva per grazia, non perché abbiamo dei meriti, altrimenti tutto sarebbe facile, calcolabile; ci prende come siamo e ci salva, anche se questo non ci esime da una condotta retta: quello che conta è il rapporto fra l’uomo e Dio, il resto viene di conseguenza.
Non può essere un «sentito dire»
Finalmente Giobbe l’ha compreso, non più per «sentito dire», ha «conosciuto» Dio: in qual modo? Non lo possiamo sapere, constatiamo però che Giobbe ha perduto l’immagine tradizionale del Dio a lui noto, del Dio «razionale», ed ha accettato il mistero di Dio in una forma di comunione che noi non possiamo capire.
Giobbe qui allude ad un’esperienza mistica, ad un Incontro che si può accogliere solo sul piano della fede, ma che può essere modello per ogni altro tipo di esperienza significativa: solidarietà, amicizia, riconciliazione con gli altri e con se stessi…
Il versetto 42,5, se viene tradotto usando il verbo conoscere («io ti conoscevo per sentito dire…»), è tradotto malissimo. Proprio qui sta il punto: il verbo yada‘ /conoscere, in ebraico, non implica una «conoscenza» intellettuale, un sapere qualcosa, un acquisire dati, ma esprime un coinvolgimento totale della persona con l’oggetto della sua conoscenza, un rapporto personale intimo, tanto è vero che rappresenta il famoso eufemismo biblico per indicare i rapporti coniugali. Se Giobbe dicesse in partenza «io ti conoscevo», annullerebbe tutta la novità del suo incontro personale con Dio. È San Gerolamo a tradurre benissimo la frase: «auditu auris audivi te», «con ascolto di orecchio ti ho ascoltato», «nunc autem oculus meus videt te», «ma ora il mio occhio ti ha visto». Quindi si passa da un sentito dire ad una visione. È importante?
Dall’ascolto alla visione

È importantissimo: perché per una volta, in un popolo, e in un tipo di rivelazione basato interamente sull’ascolto (Dio non si può vedere, infatti), si lascia l’ascolto e si passa alla visione.
C’è un vistoso contrasto fra l’antico Israele e il mondo greco, di cui noi in qualche modo siamo culturalmente figli. Per gli antichi greci l’organo di senso più importante è l’occhio; la categoria più importante è la bellezza. Ciò che è bello, che cade sotto lo sguardo e lo soddisfa, è anche buono. «Kalòs kagathòs», «bello e buono», è il binomio che definisce l’ideale di perfezione umana.
Nel mondo ebraico i due termini sono sostanzialmente invertiti: ciò che è buono è anche bello perché è utile. L’organo di senso più importante non è l’occhio ma l’orecchio, e più della visione conta l’ascolto. Israele è il popolo dell’ascolto, perché ha un Dio che non ha figura, un Dio che non si può vedere, ma si può solo ascoltare. Il Signore si presenta al suo popolo nell’oscurità della nube.
Qui Giobbe sembrerebbe rinnegare tutto questo. Quello che è stato detto di Dio, a questo punto, sembrerebbero solo «parole, parole, parole»… parole che non lo hanno consolato. Quello che lo ha consolato è l’incontro; perché Dio, in realtà, non gli ha spiegato il suo problema, non ha risolto lo scandalo della sofferenza nel mondo; gli si è manifestato nella bellezza e nella maestà della natura, che senza parole parlano di Lui.
In qualche modo, Giobbe ha «visto» Dio. L’ha intuito. L’ha incontrato. Ha anticipato uno sguardo che sarà possibile solo nella rivelazione neotestamentaria, quando si saprà che la Parola si è fatta carne e l’Invisibile si è fatto vedere. Allora l’eterno Giobbe che è nell’uomo si unirà al Figlio di Dio e il dolore sarà redento.
È l’ebreo Chagall a mostrare questa identificazione raffigurando Giobbe nell’atteggiamento della Pietà, mentre sulla sinistra del quadro si intravede il dolore Crocifisso in mezzo al nuovo Esodo di un popolo – uomini, donne, bambini e animali – che potrebbe essere Israele e potrebbe essere il popolo russo. Potrebbe essere un popolo che nella guerra è costretto a un nuovo esodo.
Quale sia la sintesi che si possa ricavare dalla lettura di Giobbe, lo vedremo la prossima volta.