
Il libro di Giobbe è un’opera composita, che si sviluppa per strati di diverse epoche di composizione disposti come cerchi concentrici. Partiamo, così, nel libro di Giobbe, da quella che è la cornice più ampia, costituita da un racconto popolare; ma il libro si svilupperà poi attraverso i secoli.
La struttura del libro di Giobbe infatti è così complessa che ha impiegato diversi secoli per potersi condensare, stratificare in una forma scritta, e questa constatazione ci dà un’idea della complessità del problema della sofferenza del giusto, un problema che ha richiesto alcuni secoli prima di trovare una risposta provvisoria, come è quella che è data dal libro.
I vari strati forniscono anche diversi tipi di atteggiamento di fronte al problema della sofferenza dell’innocente. Ci sono state, cioè, varie mani che, a loro modo, hanno cercato di arricchire il discorso, in ragione proprio della sua complessità.
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Primo strato: la cornice popolare

Il primo spunto all’agiografo, che ha dato luogo alla cornice (cap. 1-2 e 42), è venuto dalla figura popolare di un antico saggio, Giobbe, la cui vicenda, a lieto fine, doveva confermare che il momento della prova è transitorio (primo strato).
Cogliamo intanto il carattere popolare della narrazione, il tono di fiaba: il «C’era un uomo in terra di Uz…», la sua rettitudine, la sua favolosa ricchezza come ricompensa della condotta irreprensibile, l’immagine della Corte celeste, la figura del satana (semplicemente, l’avversario) e il suo girovagare in perlustrazione sulla terra. Notiamo che «il» satana non è Satana il Diavolo, ma un qualunque nemico, anche se non bene intenzionato nei confronti di Giobbe che evidentemente fa rabbia da quanto sembra integro e giusto. Il satana (sempre, rigorosamente, con l’articolo) chiede a Dio di metterlo alla prova con la sofferenza, e l’ottiene.
Toni di fiaba hanno anche le disgrazie che ripetutamente si accaniscono sui beni e sulla famiglia di Giobbe; la serie di prammatica tre + uno, i messaggeri che si precipitano a riferire le sciagure, sempre con la stessa conclusione: «Io solo sono scampato per venirtelo a dire».
Il dramma ha inizio: primo quadro

Di fronte alla sventura che lo ha colpito, Giobbe, forte nella fede e paziente, figura esemplare. riconosce che tutti i beni appartengono al Signore che, come li dà, li può pure liberamente togliere, e continua a benedire Dio.
Questo, anche quando il satana gli toglie la salute e lo riduce, come un relitto umano, a segregarsi dal consorzio civile sedendo sulla cenere. Unico suo bene rimastogli: un coccio di terracotta per grattarsi; e la moglie ad infamarlo.
Ma il senso della sua sofferenza è ben chiaro al lettore: il satana, da buon avvocato del diavolo, vuole mettere alla prova Giobbe con l’infelicità per mostrare che la sua virtù è debole e non resisterà.. vuole spingerlo, tramite la sofferenza, a maledire Dio. Una curiosità: l’advocatus diaboli era, fino a tempi recenti, colui che su incarico della Chiesa, nel corso di una causa di canonizzazione, doveva trovare argomenti contrari alla santità di una persona. La sua figura, come il satana di Giobbe, era infatti funzionale alla riprova delle virtù del santo.
Sappiamo già che il satana non avrà ragione: Giobbe manterrà la propria integrità nella sventura come aveva fatto nella felicità, e, come in una fiaba, riceverà il doppio di quanto aveva perduto, e ancora figli e figlie. Manca solo di aggiungere «E vissero tutti felici e contenti».
La sofferenza come «prova»

Qui ci troviamo di fronte una interpretazione biblica della sofferenza che si rivela fondamentale; peccato che non sia onnicomprensiva. La sofferenza, in definitiva, è solo una «prova» da superare; superandola, si riottengono i beni perduti.
Questo è avvenuto ad Abramo quando, nella sua obbedienza, non ha esitato ad offrire il figlio in sacrificio, e facendolo lo ha riottenuto come dono di Dio per sempre.
Però, un momento: che bisogno ha Dio di testare l’uomo? Non lo sa, il Creatore, che cosa c’è nel cuore della creatura? Ci conosce così poco da aver bisogno di sottoporci a test?
Questo sarebbe palesemente assurdo, e infatti il senso biblico della prova non è questo. La prova biblicamente non è un test: è una difficoltà in cui l’uomo si mette alla prova e supera se stesso.
La prova come difficoltà che fa crescere
Il paragone più calzante non è con il test di verifica, ma con la prestazione sportiva. Per progredire, l’atleta deve continuamente mettersi alla prova e superare i propri limiti attuali. Se l’assicella del salto in alto non viene continuamente innalzata, la prestazione non migliorerà mai. La prova non serve a Dio, serve all’uomo. Serve per crescere.
La fede e l’integrità di Giobbe sono grandi nella felicità, ma divengono ancora più grandi nella prova. Nella logica narrativa, la prova ha un senso in quanto funzionale ad un bene più grande, transitoria perciò. L’ottica, fin dai tempi più antichi e per molti secoli ancora, è quella della ricompensa terrena: io sono buono, Dio mi premia con una vita lunga e prospera; io sono malvagio, Dio mi punisce con una vita breve e infelice. Se interviene la sofferenza, è solo per un momento di prova. Ci piacerebbe che le cose funzionassero davvero così…
La crisi della sapienza tradizionale
Ma le cose non funzionano così nella vita. La giustizia non è ricompensata con i beni di questo mondo, l’innocenza non è rispettata, coloro che pervertono le leggi di Dio e degli uomini trionfano, talvolta per tutta la loro lunga esistenza. È accaduto che un fulmine uccidesse un pover’uomo che camminava sulla spiaggia; quando mai un fulmine ha colpito i grandi dittatori, i grandi criminali? Senza con questo voler giudicare il cuore di nessuno, ma limitandoci a valutare il comportamento. L’esempio della guerra è lampante.
Una risposta solo parziale
Questa prima risposta al problema della sofferenza dell’innocente, dunque, può essere valida ma solo in alcuni casi. Sicuramente va tenuta presente. Accade che proprio nella sofferenza la persona trovi se stessa, mentre la frivolezza di una vita banale non le aveva permesso di guardare più in profondità. Ma ci sono altri casi in cui la sofferenza schiaccia, devasta e basta. Dobbiamo andare oltre, come fa il Giobbe del secondo quadro: il dialogo con i tre amici.