Giobbe crede nella vita eterna? Rispondo subito di no.
La fede nella resurrezione
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Giobbe crede nella vita eterna? Il Giobbe della Bibbia, no. Il problema della sofferenza dell’innocente nel libro di Giobbe è particolarmente drammatico proprio per questo motivo: perché il giusto vorrebbe avere giustizia, il sofferente vorrebbe avere una compensazione alle sue pene, qui, ora. Nella vita terrena.
Gesù, servo sofferente che con l’offerta della vita salva la moltitudine, è risorto da morte. Però Giobbe questo non lo sapeva. Per molto tempo l’antico Israele non ha avuto una rivelazione dell’esistenza di una vita ultraterrena da viversi nella comunione con il Signore.
Non si scandalizzi nessuno se ribadisco che per molti secoli, dal tempo di Abramo (XIX secolo a.C.) all’epoca maccabaica (II secolo a.C.), il pio israelita è vissuto credendo e sperando nel Signore solo in questa vita, nel ristretto orizzonte della vita terrena, senza un’aspettativa di vita eterna – non, per lo meno, una vita gioiosa, senza attendersi nessuna ricompensa nell’aldilà. La concezione comune identificava l’oltretomba con una esistenza umbratile nello Sheol, una sorte di Ade o Inferi, la grande fossa comune che presto o tardi inghiotte tutti senza fare differenze; dove le ombre dei trapassati continuano ad avere un’esistenza larvale, senza gioia, grandi e piccoli, potenti ed umili, liberi e schiavi, buoni e cattivi – e, soprattutto, senza comunione con Dio.
Si trovano appena dei barlumi di luce che rischiarano questa prospettiva tetra. L’idea chiara della resurrezione compare solo con il capitolo 12 del libro di Daniele, e siamo alla metà del II secolo a.C. L’idea chiara dell’immortalità dell’anima esplode nel libro della Sapienza, e siamo verso il 50 a.C. Diviene poi un dato acquisito di rivelazione, tranne che per alcuni gruppi, come i Sadducei, che accettavano solo il Pentateuco come Sacra Scrittura. Ma Giobbe è ancora molto lontano da questo.
Un passo difficile
Al cap. 19 del libro di Giobbe, però, troviamo un brano che merita un cenno a parte:
19,25 Io so che il mio Vendicatore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
26 Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, (letteralmente: «hanno abbattuto»)
già senza la mia carne vedrò Dio.
27 Io lo vedrò, io stesso;
i miei occhi lo contempleranno, e non un altro.
Questo passo ha imbarazzato molto i critici, perché già nell’antichità il testo era un corrotto, proprio dal punto di vista dell’analisi testuale, tanto è vero che le antiche traduzioni si sono sbizzarrite nel tentativo di chiarine il significato preciso.
I Settanta traducono:
«per restaurare la mia pelle che soffre tali cose».
La Siriaca:
«e sulla mia pelle e sulla mia carne
tali cose si sono poste intorno».
San Gerolamo
Tutte queste oscillazioni dimostrano che il testo era già corrotto nei tempi antichi, ed ancora oggi è una vera crux interpretum. San Gerolamo, nella Volgata, ha dato un significato escatologico a questo brano, traducendo:
19,25 scio enim quod redemptor meus vivat
et in novissimo de terra surrecturus sim
26 et rursum circumdabor pelle mea
et in carne mea videbo Deum
27 quem visurus sum ego ipse
et oculi mei conspecturi sunt et non alius …
«So infatti che il mio Redentore vivrà e nell’ultimo giorno risorgerò dalla terra e di nuovo sarò rivestito della mia pelle e nella mia carne vedrò Dio, che vedrò io stesso e i miei occhi lo vedranno e non un altro…».
«In novissimo die», cioè nell’ultimo giorno, il fedele si ergerà dalla terra e riprenderà il suo corpo e con esso potrà contemplare Dio: la retribuzione di Giobbe avverrà quindi nell’ultimo giorno, quando egli sarà spogliato della sua carne.
Le altre traduzioni antiche, però, si sono arrampicate sugli specchi per evitare questo significato esplicito in riferimento alla resurrezione, anche perché tecnicamente la fede nella resurrezione è attestata non prima del 2° secolo a.C. e un’affermazione in tal senso rappresenterebbe un anacronismo.
Un significato possibile
Il brano esprime senza dubbio un incontro, una vera conoscenza di Dio da parte di Giobbe, ma prima o dopo la morte? Di per sé, fuori del contesto, l’espressione potrebbe anche riferirsi alla fede nell’immortalità dell’anima (affermata nell’Antico Testamento solo nel libro della Sapienza, cfr. Sap 3,1-9) o nella resurrezione (Dan 12,1 ss. e 2Mac 7), ma queste idee appaiono fuori della normale visuale dell’agiografo del libro di Giobbe.
Bisogna inoltre considerare che espressioni simili si trovano anche nei Salmi, ad indicare il disfacimento della persona, la fossa, la tomba, la morte, ma spesso come metafore per esprimere una condizione di estremo dolore, e non realmente la morte fisica: quindi il brano potrebbe avere un significato puramente metaforico.
Un’altra spiegazione consiglia quindi di riferire la fiducia di Giobbe al momento del massimo disfacimento della sua persona, espresso con iperboli (pelle distrutta, «senza la mia carne»), per cui appena prima della morte Giobbe sarebbe salvato e restituito alla pienezza della vita.
Il Go’el di Giobbe
Questa strana ambiguità comunque apre il testo al progresso della rivelazione. E l’interessante è che il Vendicatore o Redentore (in ebraico Go’el) presso gli ebrei è il parente prossimo, che anticamente aveva il dovere di vendicare le offese di sangue e, in seguito, il diritto/dovere di riscattare la vita dell’uomo che fosse caduto in schiavitù o avesse perso i suoi beni.
Giobbe esprime la propria fiducia in questa persona: Dio qui per lui non è più il nemico potenziale, è il parente più prossimo, il parente di sangue che, in qualunque modo, libererà l’uomo distrutto dal dolore. Troviamo qui l’espressione della massima fiducia in un Dio che sembra colpire immotivatamente, ma che sicuramente salverà il suo fedele: la stessa profonda fiducia che troviamo in tutti i Salmi, la fiducia in Colui che sempre libera chi gli si affida. Questa è l’ultima parola del libro di Giobbe per noi.