
Montieri, paese di miniere nel bel mezzo delle Colline Metallifere: miniere d’argento, le più ricche d’Italia, oltre ad antiche miniere di rame che, secondo il Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana del Repetti, dettero il nome al paese stesso (Mons aeris, cioè Monte del Rame).
Giacomo Papocchi nasce proprio lì in un qualche giorno del 1213. La sua vita, dai trenta anni in poi, è del tutto singolare. In età giovanile condivise probabilmente i turbamenti e le passioni dei suoi coetanei. Condivise anche il malcontento per la condizione in cui era nato ed in cui lavoravano i salariati delle argentiere locali (dall’anno 896 proprietà dei vescovi di Volterra insieme a tutto il distretto), presso le quali lui stesso prestava la sua opera.
A seguito di queste tensioni sociali, era anche accaduto nel dicembre 1238 che il vescovo di Volterra, un Pannocchieschi, e il messo papale che accompagnava, passando da Montieri, fossero aggrediti e sequestrati dai popolani, associati alla parte ghibellina: era l’epoca di Federico II. Alla morte del vescovo, l’anno dopo, il potere imperiale si impose su tutta la Toscana, Montieri dovette prestare giuramento al vicario imperiale Pandolfo e della situazione approfittò Siena che riuscì ad ottenere in esclusiva la concessione delle miniere d’argento.
Il furto
Nel 1243 Giacomo, trentenne, insieme ad altri giovani del paese, si organizzò per rubare l’argento da alcuni depositi che essi dovevano conoscere bene dal momento che vi lavoravano. Oggi c’è chi legge questo gesto come una sorta di protesta sociale, di contestazione dello sfruttamento che Siena stava operando nel circondario. Fosse per venalità, fosse per il gusto del rischio, fosse per una sfida verso il potere, una notte il colpo fallì ed il solo Giacomo fu catturato e rinchiuso nelle prigioni del Cassero, mentre gli altri riuscirono a dileguarsi.
Pagò per tutti ed ebbe una condanna esemplare, che doveva costituire una lezione per il paese. Il Medioevo non conosceva la prigione come pena detentiva: le pene erano pecuniarie o corporali, se non addirittura la pena capitale. Fu accusato di furto di argento già raffinato nella zecca del paese. La macchina della giustizia si impadroni’ di lui.
Secondo la legge dell’epoca, amministrata dai senesi, Giacomo, in quanto ladro nelle argenterie, fu condannato all’amputazione della mano destra; in quanto condannato per contrabbando «verso stati alieni», dovette subire anche l’amputazione del piede sinistro. Inabilità totale. Gente pietosa lo trasportò nella casa paterna, dove rimase a giacere a lungo, attendendo la rimarginazione delle ferite. La sua assoluta inabilità fu però per Giacomo da Montieri l’occasione di riscoprire la fede, da lui precedentemente accantonata. Nel suo cuore sgorgò la domanda di tutti i convertiti: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?». Una sua antica «Vita» riporta:
«Straziato da tale supplizio stabilì di tentare se, da mutilato e indebolito nel corpo, non gli riuscisse il proposito di rapire le ricchezze dei cieli meglio di quanto, nella sua sanità e valentia, non gli fosse riuscita la rapina vile e senza gloria delle cose terrene».
La scelta di vita: Murato nella cella

Giacomo, che ha riscoperto Dio nella preghiera, vuol restare con Dio solo. Chiede perciò al vescovo diocesano l’autorizzazione a farsi «immurare», cioè a vivere in rigorosa clausura in una piccola cella adiacente alla chiesa di San Giacomo Apostolo, allora sotto la giurisdizione dei monaci dell’abbazia di San Galgano. Da qui non si muove più per 56 anni: è il sacerdote a scendere la scaletta della cella, comunicante con la chiesa, per dargli la Comunione.
Una scelta radicale
Può stupire questa scelta come eccentrica e surreale. Ma all’epoca esistevano reclusi e recluse in ogni città. Un solo esempio per tutti: solo l’anno prima, era morta a Castelfiorentino Santa Verdiana che aveva trascorso la vita murata in una cella avendo una coppia di serpenti per tutta compagnia (un articolo su Santa Verdiana QUI). La prassi penitenziale del pellegrinaggio, inteso come mezzo di espiazione dei propri peccati, era del tutto preclusa a Giacomo. Questi portava il nome dell’apostolo al cui Santuario di Compostela si dirigevano frotte di pellegrini da tutta Europa; ma anche Montieri aveva la sua chiesa di San Giacomo Maggiore, nome portato anche dal nostro futuro Beato. Perché non rifugiarsi alla sua ombra?
La Chiesa però, nella sua prudenza, seguendo anche le indicazioni di San Benedetto, voleva che gli eremiti e i reclusi accettassero l’autorità vescovile e si mettessero alle dipendenze di un monastero, onde evitare gli eccessi dei più esaltati.
Le circostanze fecero sì che il Beato Giacomo, da Montieri dove viveva recluso, si mettesse in rapporto con i cistercensi della nascente abbazia di San Galgano, distante solo 16 km. Tanto più, che l’abbazia era sorta intorno alla memoria di un altro eremita che era approdato alla fede dopo una giovinezza turbolenta, il cavaliere San Galgano che aveva infisso la sua spada nel terreno per trasformarla in una croce (un articolo su San Galgano QUI). Da parte loro, le abbazie cistercensi si onoravano di avere nelle loro dipendenze almeno un recluso. Non è documentabile, ma non è inverosimile che il Beato Giacomo da Montieri abbia ricevuto lì la propria istruzione e compiuto lì un periodo di preparazione, come previsto all’epoca.dalle norme ecclesiastiche.
Scrutando nel cuore della scelta
Scrive il suo biografo, mons. Rino Biondi:
«Dopo il subbuglio dei primi giorni subentrò in lui una più moderata inquietudine e finalmente, alla luce di Dio, egli poté guardare fino in fondo la sua anima, come quando, giovanetto, si era specchiato nelle limpide acque di un ruscello. Il segno dell’interiore schiarita e del disgelo del cuore, che stava operandosi sotto l’influsso della grazia divina, furono le lacrime. Le molte lacrime furono, fin da principio, straordinariamente benefiche e purificatrici. Tolsero al povero mutilato il senso oppressivo di essere ormai spedito, di non servire più a niente, e dissipando dalla sua mente ogni funesto pensiero, gli rivelarono quello che d’ora in poi poteva e doveva fare: espiare volontariamente davanti a Dio, riparare in qualche degna maniera davanti agli uomini».
«Persuaso di ciò, il pio convertito non frappose più indugi, ma fin d’allora, formulò nel segreto del cuore l’arduo voto: farsi recluso volontario e passare segregato dal mondo tutto il resto della sua vita».
«Tuttavia, per realizzarla nel modo voluto dalle leggi canoniche, doveva anch’egli appoggiarsi al monastero più vicino; e lì, il più vicino, il più in vista (anche materialmente, perché da Montieri, come da un aereo balcone, era facile scorgerlo giù in fondo al pian della Merse) era quello: San Galgano. Non era possibile ignorarlo».
Il Beato Giacomo e San Galgano
«Da parte di Giacomo c’era soprattutto l’ammirazione per il Santo ch’egli poteva considerare quasi suo conterraneo e affine a sé, perché passato dalle colpe di gioventù alle austerità della vita solitaria” ma ad essa “si aggiungeva la stima per la Badia di stretta osservanza e il bisogno, da lui umilmente e profondamente sentito, di attingere a una fonte di genuina spiritualità, prima di affrontare le asprezze della reclusione».
«Sarà stato davvero laggiù il Beato a istruirsi nelle monastiche discipline? Rispondiamo: – La cosa non è documentabile, ma neanche inverosimile; anzi, trova il suo appoggio, come abbiamo già detto, nella tradizione e nella disciplina della Chiesa. E per giunta, più vi pensiamo più ci convinceremo che un simile tirocinio era assolutamente necessario al nostro Penitente. Avendo egli fino a ieri seguito il mondo, l’improvvisa conversione non poteva supplire a tutto, né aprirgli tutti in una volta gli arcani della vita contemplativa. Gli occorreva una preparazione, e questa, da solo, non poteva farla; mentre la Badia era lì, come uno scrigno nuovo, fornito degli incomparabili tesori della spiritualità cistercense»
(R. Biondi, Il Beato Giacomo da Montieri, UTA, Volterra 1964, passim).
L’ingresso nella cella

D’altra parte, Giacomo non era solo nel suo arduo percorso: il popolo di Montieri, che lo aveva scusato per il suo gesto giovanile, adesso lo considerava un santo e gli dava la sua solidarietà e il suo aiuto. La sua cella somigliava, anche fisicamente, alla garitta di una sentinella che vigilava sul popolo e intercedeva per lui. Il recluso non era un isolato, e la comunità non lo abbandonava: i popolani gli costruirono la cella, e il giorno del suo ingresso in essa fu un giorno di festa di paese, autorità in testa. Il rituale prevedeva
- la benedizione del luogo, per cui la cella diveniva un oratorio;
- la professione solenne con l’emissione dei tre voti religiosi e l’aggiunta del quarto voto, di reclusione (osservare la più rigorosa clausura di modo che, una volta entrati in cella, non se ne uscisse mai più);
- l’introduzione nella cella per mano del rappresentante della cella, in questo caso il rettore della chiesa di San Giacomo che ne avrebbe avuto la responsabilità della custodia;
- la consegna delle chiavi della cella al rettore.
La vita del Murato
A differenza dell’eremita, che coltiva il proprio orto e può avere una propria autonomia, il Murato dipende esclusivamente dalla carità altrui. Non poteva procurarsi il cibo in alcun modo, se non aspettando che glielo portassero. La «Vita» di Cerbonio Bocceri (1588) nota del Beato Giacomo da Montieri:
«Accadeva di dover digiunare per mancanza di alimenti proprio nelle maggiori solennità dell’anno, perché quelle devote persone che erano consuete portargli o mandargli le elemosine, non lo facevano in quei giorni credendo che egli ricevesse alimenti in sovrabbondanza da altri. così, a motivo di questa buona fede delle devote persone, il servo di Dio era tormentato dalla fame. Egli però la sopportava con santa pazienza e non se ne lamentò mai con alcuno».
I popolani avevano almeno un pagliericcio, ma il Murato dormiva sulla nuda terra, rivestito solo del rozzo saio che gli era stato dato in giorno del suo ingresso in cella e che non avrebbe più cambiato. Di legna e di carbone in paese ce n’era a bizzeffe, ma il freddo della cella non era attenuato in alcun modo. Vivere per 46 inverni al gelo fu forse la sfida più grande del Beato Giacomo. Ma in aggiunta a questo, per una maggiore penitenza, il Murato, seguendo i costumi del suo tempo, si flagellava con la disciplina.
Consigliere di molti
I reclusi non potevano uscire dalla cella, ma chiunque poteva accostarli da fuori, ponendo dubbi e chiedendo consigli. Tutti i fedeli del paese, recandosi alla messa e ai Vespri, passavano accanto alla cella del Beato Giacomo e ne approfittavano per parlargli: egli divenne, così, il centro di riferimento spirituale del paese. Vista dal basso, la sua cella sembrava proteggere l’agglomerato di case, e il Murato appariva come un secondo Mosè intento a pregare per il suo popolo. Vista dall’alto, dava l’idea di un’unica grande famiglia da custodire (cfr. R. Biondi, Il B. Giacomo, p. 105).
Pochi avevano l’autorizzazione ad entrare nel suo angusto ricettacolo. Tra questi, oltre ai rettori succedutisi in 46 anni nella chiesa di San Giacomo, il Beato Ranieri da Belforte, futuro abate di San Galgano. Ma si parla anche di apparizioni di amici celesti, prima fra tutti Maria Maddalena, considerata la Santa penitente per eccellenza.
Nella sua cella infatti il Beato Giacomo da Montieri raggiunse le più alte vette di misticismo, in penitenza e preghiera, con visioni e miracoli. Nella parte della chiesa era stato praticato un pertugio da cui il Beato non poteva fisicamente vedere l’altare, ma poteva sentire le parole del sacerdote mentre celebrava la messa. Da questo pertugio il sacerdote scendeva per portare al recluso la Comunione, centro e desiderio di tutta la sua spiritualità. Secondo gli antichi biografi, però, dalla sua cella, attraverso lo spesso muro, il Beato riusciva a vedere il sacerdote che celebrava la Messa all’altare della chiesa. Nei giorni prossimi alla morte, non essendo il sacerdote potuto salire a celebrare la messa in chiesa a causa di un’abbondante nevicata, Gesù stesso scese a dargli la Comunione eucaristica.
Il culto
Il Beato Giacomo da Montieri morì veneratissimo dal suo popolo, che lo confortava con la sua presenza alla cella, il 28 dicembre 1289, dopo 46 anni di rigorosissima penitenza. Il culto del Beato Giacomo da Montieri, ex contestatore e ladro pentito, fu approvato da Pio VI nel 1798 ab immemorabili.
Sin dal 1348 è esistita a Montieri un’Opera Sancto Jacopo Murato allo scopo di onorarne la memoria. In tempi recenti l’Opera è stata ricostituita per tramandare il culto e la memoria storica del Patrono di Montieri, per preservare i luoghi sacri alla sua memoria e per organizzare le feste in suo onore (seconda domenica di maggio, 27 luglio, 28 dicembre).
Il video del messaggio di Natale di don Orazio QUI.