
Giacobbe il Soppiantatore (per l’origine del nome v. QUI) ha già dimostrato la sua indole comprando la primogenitura di un Esaù che – per così dire – non ci vede più dalla fame e perciò cede i suoi diritti al fratello per un po’ di minestra; ma questo il padre non lo sa. Il padre Isacco desidera benedire il primogenito per conferirgli la sua eredità: e il primogenito rimane ancora per lui Esaù, che Isacco preferisce al fratello. Forse vede in Esaù, aitante e vigoroso cacciatore, la primizia della sua virilità.
Eppure, se seguiamo la trama della narrazione biblica, Isacco dovrebbe sapere che cosa significa fare discriminazioni fra un figlio e l’altro: fra Ismaele e Isacco, era il figlio minore quello dalla parte giusta della storia della salvezza. Evidentemente Dio non sceglie coloro che sono grandi per gli uomini, perché li scarta sempre: ne sono un esempio eloquente Caino, Ismaele, adesso Esaù, poi lo saranno i fratelli più grandi di Giuda, e poi i fratelli più grandi di David…
Queste cose le doveva sapere Isacco, e doveva immaginare che il violento Esaù, dedito ad una vita selvaggia, non sarebbe stato adatto a fare la guida spirituale della discendenza di Abramo, e che la scelta più appropriata sarebbe stata quella di Giacobbe. Se a ciò non pensa il patriarca, ci pensa la sua sposa, che appare come accecata dall’affetto filiale (per un figlio solo, però) e pronta a porre in opera piccoli inganni eticamente riprovevoli. Ma la Bibbia non è un libro edificante, è un insieme di scritti realistici che ci portano in mezzo alle vicende umane come sono e non come vorremmo che fossero. Dio scrive diritto sulle nostre righe storte, disse Bossuet).
La benedizione paterna
Il primogenito, futuro capo e sacerdote della famiglia, doveva ricevere l’investitura dal padre. Nel caso di Esaù e Giacobbe, era Esaù quello che era venuto per primo alla luce. Pur avendo dimostrato di disprezzare e mercificare la sua primogenitura, il padre Isacco continuava ad essere attratto dall’apparenza del figlio maggiore. Contro la sua volontà, allora, il disegno di Dio si attua attraverso l’intreccio delle azioni umane; come nella tenda di Abramo la voce di Sara aveva indicato la via che doveva prendere la schiava con il figlio Ismaele, adesso è la voce di Rebecca che suggerisce a Giacobbe lo stratagemma efficace per carpire la benedizione spettante al primogenito.
I rabbini vedono nella competizione tra i due fratelli la lotta fra il principio della vita materiale, della forza e della prepotenza e quello della vita ideale, dell’amore e della giustizia. Sarebbe lo scontro fra due mondi, quello di Esaù e quello di Giacobbe.
L’inganno
Questo non può rendere etico ciò che non lo è: l’inganno nei confronti di un padre cieco. Francamente, la simpatia del lettore potrebbe andare all’ignaro Esaù e non all’astuto Giacobbe. Eppure c’è qualcosa che non torna nel racconto: come è possibile che una benedizione impartita per errore sia valida? Nel nostro mondo l’atto sarebbe nullo, perché compiuto sulla persona sbagliata, e oltre tutto non per semplice errore, ma per frode. Perché Isacco non la può revocare e riformulare sul vero erede?
Il fatto è che nell’antichità aveva valore l’atto compiuto, e non l’intenzione con cui era stato compiuto. Un voto sconsiderato e riprovevole aveva valore anche se chi l’aveva pronunciato se ne fosse pentito e avrebbe voluto ritirarlo: non poteva, doveva mantenerlo, fosse anche un’azione criminale. Una benedizione pronunciata sulla persona sbagliata valeva oggettivamente, anche se frutto di errore e persino di frode. Eppure, come è possibile che qualcosa sia illecito eppure resti valido?
Ce lo spiega ottimamente la brava Agnese dei Promessi Sposi, quando vuol convincere la riluttante figlia Lucia a mettere in atto il matrimonio di sorpresa per superare la resistenza di don Abbondio:
«Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d’accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’e fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie».
E all’obiezione di Lucia – «perché la cosa non è venuta in mente a padre Cristoforo? » – ecco la risposta dell’accorta Agnese:
«Perché… perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene».
«Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta?» disse Renzo.
«Che volete ch’io vi dica?» rispose Agnese. «La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose… Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare»
(I promessi sposi, Capitolo VI, rr 214 ss.).
È come dare un pugno a un cristiano… non istà bene; ma una volta che è dato, neppure il Papa glielo può levare. Questa concezione meccanica delle parole dette e delle azioni fatte ci spiega come nell’antichità l’errore non si potesse più correggere. E, come ripeto, Dio scrive diritto sulle nostre righe storte. Così, l’errore entra nella storia della salvezza: passerà da Giacobbe, e non da Esaù, la linea della discendenza di Abramo padre della fede.
(Per la cronaca: a norma del vigente diritto canonico il matrimonio a sorpresa, ammesso fino al 1907, sarebbe non solo illecito ma anche invalido, perciò non ci pensate neppure…)