Dopo il Discorso della Montagna, una sezione narrativa. Gesù, dopo aver donato la legge di carità che dà compimento alla Legge di Mosè, scende dal monte e si incontra con i sofferenti.
Attraverso di lui irrompe nella storia il Regno dei Cieli, una forza salvifica più potente dell’emarginazione, dell’infermità, del peccato, della morte. Questo blocco narrativo permette al lettore di vedere operante in pratica quella misericordia ma anche quella autorità che Gesù ha già manifestato col suo insegnamento. Al tempo stesso, come già emerso in questo insegnamento, sta alla fede dell’uomo accettare la potenza di Dio.
Rispetto al materiale presentato da Marco, i racconti risultano abbreviati e spogliati di dettagli non essenziali, mentre in primo piano è nettamente leggibile il tema della fede.
La sequenza, come si presenta in Mt 8-9, è costituita da 10 miracoli, suddivisi in gruppi di tre intervallati da detti e racconti di sequela:
- Tre guarigioni di emarginati: un lebbroso, un pagano e una donna (8,1-17)
- Detti sulla sequela (8,18-22)
- Tre gesti di autorità: sul mare, sul demonio e sul peccato (8,23-9,8)
- Vocazione di Matteo (9,9-17)
- Guarigioni “doppie” (9,18-34)
Tre guarigioni di emarginati: un lebbroso, un pagano e una donna (8,1-17)
La legge di Mosè fa continuamente confrontare Israele con la necessità di evitare l’impurità rituale. Non si tratta di peccati di ordine morale, ma di condizioni fisiche che rendono non idonei al culto. Particolari malattie contagiose, il ciclo femminile, l’appartenenza al mondo pagano rendono impuro chi ne è affetto e chi entra in contatto con lui.
La sequenza matteana sembra seguire l’ordine di esclusione dall’accesso al tempio: i lebbrosi non potevano neppure entrare nella città, i pagani potevano accedere solo alla parte più esterna del tempio detta appunto atrio dei Gentili (o pagani), le donne potevano arrivare fino al secondo atrio, quello detto “delle Donne”, riservato al popolo di Israele, ma erano escluse dall’accesso all’altro più interno, “degli Uomini”.
L’impurità del lebbroso
La lebbra, ovviamente, innalzava una barriera sanitaria, invisibile ma invalicabile, allo scopo di evitare il contagio. Il peccato stesso è simboleggiato da questa malattia, uno dei mali più terribili che abbiano mai afflitto l’umanità perché porta al disfacimento della persona. Gesù supera la barriera della malattia e della paura: il lebbroso gli si avvicina e Gesù non lo sfugge, lo lascia venire a sé e lo tocca, contraendo così la sua stessa impurità; assumendo questa su di sé, purifica l’uomo. Nei Vangeli non si dice mai che Gesù guarisce (therapeuo) un lebbroso, ma sempre che lo purifica (katharizo). Il gesto, diretto, è divino (“Lo voglio, sii purificato”), ma rimanda all’autorità del sacerdote che deve dichiarare l’avvenuta guarigione perché colui che è stato purificato sia riammesso nell’assemblea.
L’impurità del pagano
Dall’impurità data dalla malattia all’impurità data dalla nascita fuori del popolo santo. Ancora una volta Gesù valica una distanza che in questo caso è una distanza solo etnica e mentale ma non per questo meno insuperabile. È dunque inaspettatamente che questo uomo pagano si fa incontro a Gesù dando prova di una fede superiore a quella di ogni altro nel popolo eletto, e in questo diviene modello per noi. Ogni volta che partecipiamo all’eucaristia ripetiamo le parole del centurione, facendone uno dei versetti biblici più noti al mondo, senza forse renderci conto che ne siamo debitori alla fede di un soldato romano. L’impero che egli serviva è ormai polvere da molti secoli, ma le sue parole semplici, forse dette in un latino o un greco rozzo, forse in un aramaico zoppicante, sono rimaste. Il centurione ha fede nella parola: è un militare, obbedisce agli ordini, a sua volta impartisce ordini, e non ha bisogno di controllare per sapere se le sue parole sono state eseguite, la vita militare è fatta così, con le parole si comanda e alle parole si obbedisce.
L’impurità della donna
Dall’impurità etnica del pagano all’impurità di genere, la più radicale: un malato poteva guarire, un pagano si poteva convertire, ma una donna non poteva divenire uomo, rimanendo esclusa dall’idoneità cultuale per tutta la vita.
La suocera di Pietro, invece, risorta (il verbo è quello della resurrezione), inizia a servire Gesù. Il verbo è all’imperfetto (lo serviva), perciò designa una azione che, iniziata, continua. Il verbo diakonéo è il verbo del servizio ecclesiale, di quello che anche noi chiamiamo diakonia.
In Matteo, però, il senso è anche più forte. Nel Vangelo secondo Marco, la donna “li serviva”: l’oggetto del suo servizio sono i discepoli, la comunità di cui la donna è diacono. In Matteo invece la donna “lo serviva”: l’oggetto del servizio è, direttamente, la persona di Gesù. E questo è maggiormente significativo: perché mentre la donna doveva tenersi a distanza dal culto del tempio, da Gesù è ammessa a offrire il proprio servizio al Signore.
Segue un riepilogo: Gesù risana con la sola autorità della sua parola e non con riti spettacolari o appellandosi a Dio; Gesù risana tutti, incondizionatamente. Ciò è possibile, spiega Matteo, perché in Gesù si compie la profezia di Is 53,4 sul Servo che assume il carico delle debolezze e delle malattie dell’uomo. In questo modo lo redimerà.