Se Gesù può placare il mare, cacciare i demoni, perdonare i peccati, può anche convertire i malvagi, farli rinascere a vita nuova e farne discepoli. Può sanare i malati, richiamare a vita i morti, far vedere i ciechi e far parlare i muti. Lo fa, perché lo può e perché lo vuole. Gesù lo fa perché ha compassione.
Vocazione di Matteo (9,9-17)
Il caso esemplare è quello di Matteo in persona, che Marco chiama Levi figlio di Alfeo, utilizzando forse per rispetto dell’apostolo un secondo nome (Mc 2,14), mentre il primo evangelista non ha timore di identificarsi con la persona del pubblicano. Apostolo ed evangelizzatore, Matteo non ha paura di riconoscere di essere nient’altro che un peccatore pentito.
Anche in questo caso il racconto di Matteo è più sbrigativo, e il suo centro di interesse è il dopo-conversione: il banchetto dei peccatori insieme ai quali siede Gesù.
I pubblicani, pubblici peccatori
Quelli che noi chiamiamo pubblicani erano gli esattori che prendevano in appalto la riscossione delle tasse dal governo romano, ed avevano ben quattro motivi per essere odiati: in primo luogo, riscuotevano denaro; in secondo luogo, non lo riscuotevano per il tempio (contribuire al culto era un onore per ogni israelita), ma per l’odiato governo oppressore; in terzo luogo, questi pubblicani erano ebrei collaborazionisti, che per fare i propri interessi si mettevano dalla parte dei dominatori stranieri, pagani e vessatori; in quarto luogo, approfittavano della loro posizione per rubare a proprio vantaggio.
Si trattava, dunque, di persone di pessima reputazione, e fa scandalo che Gesù sieda a mensa con costoro. Ma può il medico, spiega Gesù, tenersi lontano dai malati, se la sua missione è curare gli infermi, e non i sani? Quanto è maggiore dell’atto rituale, e della purità che permette di compierlo, l’atto di misericordia (cfr. Os 6,6)!
La vocazione
Questo episodio di vocazione mette in luce un elemento fondamentale della sequela di Gesù: essa non richiede pre-requisiti di santità né di irreprensibilità, ma è opera della misericordia divina, un dono di Dio che chiede di essere ricevuto con umiltà.
Il «Seguimi!» che Gesù rivolge a Matteo è una chiamata speciale ad una vita di particolare sequela che il Signore non indirizza a tutti. In quel momento sta formando una comunità di discepoli che lo seguono ovunque e per questo sono chiamati a lasciare ogni altra cosa. Poi, nel corso di tutta la storia della Chiesa, chiederà ad alcuni, a molti anche, la sequela su una via di speciale consacrazione (cfr. i «consigli evangelici» nel capitolo 19). Ciò non toglie niente alle altre vocazioni ad una vita vissuta in famiglia, nel lavoro, una vita ordinaria in apparenza ma anch’essa straordinaria nell’intimità con Cristo.
Il Cristo Sposo
La correttezza di Gesù e il suo zelo sembrano anche contestati a motivo dell’assenza, nella vita dei suoi discepoli, di quegli atti di penitenza, come il digiuno, che caratterizzavano il giudaismo dell’epoca ben al di là dello stretto obbligo di legge. La Torah prescrive il digiuno solo nel giorno del Kippur (Nm 29,7), tuttavia gli zelanti digiunavano molto più spesso, i farisei il lunedì e il giovedì. Ma il tempo di Gesù è tempo di nozze, tempo di gioia, ed è il momento di far festa, non di affliggersi col digiuno.
Il cuore del brano è l’immagine del Cristo-Sposo, sulla linea della predicazione profetica che a partire da Osea applicava a Dio la veste di Sposo d’Israele. Il linguaggio cristiano cambia prospettiva e riferisce a Gesù l’immagine sponsale, ma, come per il Dio dei profeti, si tratta della sponsalità dolorosa dell’amore di Dio ferito dagli uomini e tuttavia indefettibile.
L’accettazione dell’amore di Dio pone fine ai compromessi. Non si può unire il nuovo al vecchio, rinchiudere la forza del vino nuovo in otri vecchi, cucire una stoffa nuova su un vestito logoro. La novità è radicale e non viene a patti con ciò che è obsoleto.
Quattro guarigioni (9,18-35)
Un racconto a sandwich
Anche il complesso «racconto a sandwich» della guarigione dell’emorroissa all’interno del racconto di risurrezione della figlia del «capo» (Giairo) che in Matteo non ha nome, è sfrondato da tutti i particolari narrativi che vivacizzavano il racconto di Marco (rimangono solo 9 versetti su 23).
Resta essenziale il tema della fede: la fede di un uomo influente nella sua comunità, la fede della donna impura e quindi isolata nella comunità da 12 anni. Veniamo a sapere, da Marco, che la fanciulla ha 12 anni, quindi è in quel tipo di società una ragazza che ormai è pronta per la vita. Due esistenze parallele perdute: la donna matura, intoccabile da 12 anni; la giovanissima, stroncata dodicenne. Su queste due esistenze parallele perdute interviene la fede – la fede della donna, la fede del padre. È la fede che accoglie l’intervento del Signore.
La resurrezione della fanciulla nell’interpretazione di Zeffirelli:
I ciechi guariti
Doppio anche il miracolo dei ciechi: in Matteo i ciechi guariti, come gli indemoniati di Gerasa, sono due. Un motivo della duplicazione può essere la fedeltà di Matteo alla norma deuteronomica che vuole che i testimoni in giudizio, perché la testimonianza sia valida, siano almeno due; non sono mai mancati però esegeti che hanno fatto notare come spesso mendicanti e infermi si aiutassero gli uni con gli altri muovendosi in coppia se non in gruppo, perciò come forse Marco e Luca facessero parlare e agire solo uno di essi lasciando l’altro sullo sfondo.
Silenzio e parola
La sezione si conclude con la guarigione di un muto cui Gesù rende la parola: tutto avviene in silenzio, non c’è dialogo qui, finché non è la folla a prorompere in un grido di stupore. La parola dei farisei, invece, rispecchia la mente contorta di chi cerca negare l’evidenza: Gesù non viene da Dio, ma dal diavolo.
La compassione di Gesù
Il sommario finale (9,35) riassume l’attività messianica di Gesù, le vie del Vangelo: la predicazione del Regno o kerygma, l’insegnamento o didaché, la taumaturgia.
L’espressione della compassione di Gesù sulle folle stanche e abbattute (9,36-38) introduce al discorso missionario. Compare qui per la prima volta in Matteo il verbo splanchnizomai (9,36; 14,14; 15,32; 18,27; 20,34) che indica il fremito delle viscere (tà splanchna in greco). Dove l’italiano traduce, più piattamente, «si commosse» o «provò compassione», nel testo greco è «sentì fremere le viscere», che nei Vangeli non è un cedere umanamente all’onda della emotività o del sentimentalismo, ma equivale ad esprimere l’amore divino che in ebraico è designato dal verbo racham / amare con le viscere di una madre, ove il sostantivo rechem, che ha la stessa radice, è l’utero, il grembo materno. Questo amore appassionato vuole che alla folla spossata e smarrita siano inviati i pastori e i coltivatori che se ne prendano cura; vuole la missione.