Il cuore del discorso della montagna è la consapevolezza di esser figli, perciò il discepolo deve affidarsi all’amore provvidente di Dio. La fiducia deve essere riposta nel Padre, vero Dio, e non nel falso dio che è Mammona (ma’amum), parola aramaica che designa la ricchezza. Sarebbe meglio non tradurla, perché, significativamente, ha la stessa radice ’mn del verbo «aver fiducia», riporre la propria certezza in qualcosa (da qui anche il nostro amen). Mammona, la ricchezza, appare essere il vero concorrente di Dio.
L’identikit del discepolo porta dunque, ancora, il marchio della povertà. Come ricordava anche un grande studioso ebreo, Martin Buber, «quanto è più facile per un povero confidare in Dio! Perché se uno è ricco tutti i suoi beni gli gridano: Confida in me».
Dove è il vero tesoro?
Non si tratta di spogliarsi di tutti i beni materiali, ma di non farne tesoro, di non porre lì il nostro cuore, perché sarebbero facile preda di tarme, ruggine e ladri. La salvezza dipende da ciò che consideriamo prezioso. Che cosa è importante per noi? Le ricchezze ammassate per noi stessi o le ricchezze condivise in elemosina?
Le frasi si snodano passando da un concetto all’altro, dal vero tesoro del cuore alla luce del corpo, dal servizio di Dio alla fiducia nella sua Provvidenza, dalla misura del giudizio alla prudenza nella testimonianza, dall’insistenza nella preghiera alla regola d’oro della carità.
Lo sguardo limpido
Il rapporto col mondo passa per lo sguardo, e l’occhio è l’organo del desiderio: deve vedere in modo limpido, semplice ma non semplicistico. L’occhio semplice, non offuscato da divisioni e macchie di oscurità, si fa totalmente trasparente alla luce interiore e ne inonda il mondo. È l’occhio buono, che guarda gli altri con amore e illumina la vita, come il sale le dà sapore: luce e sapore che vengono da Dio ma devono trapelare, e non essere smentite, attraverso l’esistenza del credente.
Questa esistenza appartiene solo a Dio. Mammona, l’ingordigia dei beni, non può essere un secondo signore, neppure marginale. Il denaro è un buon servo ma un cattivo padrone.
La scelta deve essere radicale, perché il legame con la ricchezza comporta una preoccupazione che frammenta la vita e la aliena; la buona sollecitudine per gli altri invece arricchisce l’esistenza. È contraria alla fede l’inutile agitazione, l’affanno che lacera l’anima facendola vivere nell’inquietudine per il domani. Solo l’oggi è la dimensione della vita reale: l’eternità è un eterno presente, non un eterno futuro che non giunge mai.
Guardate i gigli dei campi…
Se Dio dunque dà la vita, non darà anche ciò che le serve? Se Dio nutre e veste le creature più piccole, non nutrirà e vestirà le più grandi?
I lavori che gli uccelli del cielo non fanno sono i lavori maschili di seminare, mietere e immagazzinare. I lavori che non fanno i gigli del campo sono quelli femminili di filare e tessere. Spesso c’è questo parallelismo nascosto che il lettore moderno non sa più cogliere: tutta l’attività umana viene così racchiusa in questa immagine di abbandono totale al Padre.
Noi siamo invece oligopistoi, «scarsi di fede», parola che Matteo conia per indicare quanto siamo poveri di fiducia nell’amore del Padre, che ben sa di che cosa abbiamo veramente bisogno: la giustizia di Dio, infatti, è la salvezza dell’uomo. E come la giustizia di Dio è salvifica, anche il giudizio dell’uomo deve essere benevolo, e lo sguardo sull’altro, quell’altro che Dio ama in modo pazzesco, deve essere misericordioso.
Guardare agli altri con lo sguardo di Dio
In questo modo Gesù ci pone davanti a noi stessi, anche alle nostre manchevolezze. Il paradosso della trave nell’occhio nostro in confronto alla pagliuzza nell’occhio dell’altro serve a richiamarci al fatto che solo a condizione di essere consapevoli della nostra miseria ci si possa permettere di correggere fraternamente gli altri. Porre gli altri sotto la luce spietata del nostro giudizio, senza difesa alcuna, guardando l’esterno senza poter vedere il cuore… questa è l’offesa alla misericordia di Dio.
Ciò non significa che si debba essere lassisti: non si farebbe il bene di nessuno, neppure di colui verso il quale fossimo troppo indulgenti. Il centro del rapporto con gli altri è la misericordia, il che non comporta che si abbandoni la comunità a se stessa, di modo che i deboli vengano schiacciati dai più prepotenti. Quello che non si deve giudicare è il cuore della persona, perché solo Dio lo vede; si valutano però le sue azioni nei loro effetti sugli altri, partendo innanzitutto da una stima severa di noi stessi.
Chi ha consapevolezza di aver ricevuto tanto dalla bontà divina deve ridare con la stessa misura. L’insistenza del mendicante, l’affetto del figlio sono eloquenti: a maggior ragione il Padre celeste darà il meglio agli uomini. Non è una questione di tornaconto comportarsi con gli altri come si vorrebbe che gli altri facessero con noi. Questo è il comandamento essenziale che riassume tutta la Scrittura.
Tuttavia non si possono svendere le cose sacre a «cani e porci» (7,6): il monito mette in guardia dalla banalizzazione del Vangelo per procacciarsi un facile gradimento e un seguito personale.