Mi sembra che la tendenza di segno opposto rispetto all’uso dello shewah o dell’asterisco, ma portata avanti dalla stessa parte, sia quella di introdurre parole anche troppo definite in relazione al genere. Sto parlando di quegli orrendi neologismi femminili e femministi constistenti in nomi di professioni o di ruoli al femminile dove in italiano il femminile non esiste. Femminili che mi sembrano impazziti.
Nomi come sindaca, assessora, ministra, medica mi appaiono più che altro delle caricature che deformano e sminuiscono il femminile invece che valorizzarlo. Se io sono una donna che fa il sindaco, devo chiamarmi sindaca, perché l’essere donna mi fa svolgere il ruolo al femminile? Cioè mi fa svolgere il ruolo in modo diverso da un uomo? Per me questo è offensivo.
Si tratta di nomi di funzioni, e non di persone fisiche. Io scriverò sindaca e assessora quando loro (forse dovrei dire lore?) scriveranno il guido alpino, il guido turistico, il guardio forestale, se si tratta di maschi. Sto anche pensando che se una donna svolge il ruolo di capo ufficio dovrebbe essere chiamata capa ufficio, o è meglio capa ufficia? E S. Teresa d’Avila e S. Caterina da Siena, proclamate dottori della Chiesa per l’elevatezza della loro dottrina al pari di un S. Agostino o un S. Tommaso d’Aquino, dovrebbero essere ribattezzate dottoresse della Chiesa (o dottore, plurale di dottora)?
E poi, un momento: perché limitarci a questo? Perché devo dire che un essere umano maschile è una persona? Se permettete, è un persono; mentre una donna è un’essera umana, non sia mai che il maschile la fagociti e le faccia perdere l’identità… E inoltre, perché questo suprematismo maschile con noi e voi e vi? Non sarebbe meglio declinare anche questi pronomi al femminile? Magari Noe, voe, tue, ìa…
Esempi di parità di genere
Il politicamente corretto, come combatte il suprematismo bianco, combatte anche il suprematismo maschile. Ecco di conseguenza la tecnica della scrittura inclusiva simmetrica. Essa consiste nello specificare ogni volta la forma maschile per gli uomini e quella femminile per le donne. Per esempio, la frase «Gli scienziati Giuseppe Levi e Rita-Levi Montalcini» dovrebbe diventare «La scienziata Rita-Levi Montalcini e lo scienziato Giuseppe Levi».
Leggo anche che per la parità linguistica di genere, particolare attenzione va prestata anche all’uso dell’articolo femminile prima del cognome della donna. Abbastanza stranamente, forme come «La Montessori» non vanno più bene e vengono sostituite da «Montessori» (dove il femminile va a farsi benedire), oppure «la Dott.ssa Montessori».
Un caso a parte è rappresentato dalla parola «uomo». Nel linguaggio inclusivo di genere hanno diversa sorte due tipi di trattamento:
- La parola «uomo» si può usare come espressione idiomatica, ovvero quando rappresenta l’umanità in formulazioni del tipo «A passo d’uomo» e «Il cane è il miglior amico dell’uomo». Che anche il cane abbia un genere maschile o femminile, evidentemente, non ha importanza. Con buona pace delle cagnoline di tutto il mondo.
- Non si può invece usare come sostantivo generico descrittivo. Cioè, non può rappresentare intere categorie sociali in espressioni del tipo «Uomini d’affari» e «Uomini di scienza». Guai!
Il problema del dizionario: l’attenzione al femminile del vocabolario Treccani, subito ribattezzato «Treccagne»
Di queste problematiche tiene conto anche il nuovo vocabolario Treccani, che così si presenta sul sito:
«Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Il vocabolario Treccani è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole, promuovendo inclusività e parità di genere».
Ordine alfabetico
L’ultima edizione del vocabolario Treccani si preoccupa dunque della «parità di genere». Interrompendo una tradizione inveterata, riporta per primi i nomi e gli aggettivi al femminile, con la motivazione che in ordine alfabetico la lettera A viene prima della O. Dunque, «bella» viene prima di «bello». «Medica» [che orrore, ndr] viene prima di «medico».
In virtù della stessa motivazione, però, in realtà non è sempre il femminile a precedere, ma la forma che viene prima secondo l’ordine alfabetico. Quindi, per esempio, dovremo cercare «attore» e non «attrice»; «direttore» e non «direttrice». Mi sembra che questo complichi, e non faciliti, le ricerche.
Lavori al femminile
Nel vocabolario Treccani vengono inoltre introdotte le forme al femminile di lavori e professioni, mentre sono abolite le spiegazioni dei lemmi che facciano riferimento a stereotipi di genere (come «la mamma cucina, il babbo lavora»; si potrà continuare a dire «la madre partorisce», «la madre allatta», o è uno stereotipo anche quello?).
L’Accademia della Crusca si pronuncia
Al quesito postole dal Comitato Pari Opportunità del consiglio direttivo della Corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari rispettosa della parità di genere, l’Accademia della Crusca ha detto «No» ad asterischi e schwa, no all’articolo davanti al nome (la Meloni, la Schlein). No anche alle reduplicazioni retoriche (come i cittadini e le cittadine, le figlie e i figli). Approva invece il plurale maschile non marcato «inclusivo», e questo mi fa molto piacere, e dice di sì ai nomi di professione declinati al femminile (magistrata, avvocata, difensora, pubblica ministero, cancelliera, brigadiera, procuratrice, questora): il che non mi piace per niente.
La premessa
La premessa, equilibrata, è che «i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali. D’altra parte queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». Quindi, devono essere prese in considerazione. Risultato?
Indicazioni pratiche
Su questa base l’Accademia della Crusca, «sentito il parere del Servizio di consulenza linguistica e del suo coordinatore, e dopo approfondita discussione in seno al Consiglio direttivo», suggerisce in forma sintetica alla Cassazione una serie di «indicazioni pratiche».
Asterischi e shewah
Intanto, niente asterischi o schwa: «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (”Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…). Lo stesso vale per lo scevà o schwa».
Reduplicazione dei generi
Poi, in una lingua come l’italiano che ha solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile, «lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti» non è «la reduplicazione retorica, che implica il riferimento raddoppiato ai due generi» (come in “lavoratrici e lavoratori”, “impiegati e impiegate”); ma è «l’utilizzo di forme neutre o generiche (per esempio sostituendo “persona” a “uomo”, “il personale” a “i dipendenti”), oppure (se ciò non è possibile) il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare».
Maschile non marcato
Peraltro in molti casi il maschile non marcato (ad esempio: «tutti pronti?», «sono arrivati tutti») «è inevitabile», al punto che, «se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine».
E sempre il maschile non marcato si può usare quando ci si riferisce «in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta, ad esempio «il Presidente del Consiglio dei ministri».
Nomi di professione al femminile
Per il resto la Crusca suggerisce che si debba «far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile», che l’Accademia suddivide in base a classi, desinenze, suffissi, forme composte ed eccezioni. Così avremo:
Nomi terminanti in -o
Nomi terminanti in –o, femminile –a: colonnello, colonnella; architetto, architetta…
Desinenza in –e non suffissata
Desinenza in –e senza suffisso, nomi ambigeneri, specificati dall’articolo: il preside, la preside; il giudice, la giudice…
Nomi suffissati
- In –iere, femminile –iera: cancelliere, cancelliera. Leggo però che «nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne». Meno male, farebbe troppo ridere «cavaliera del lavoro» e «commendatora». Ritengo che questo sia anche il caso delle sante, come Teresa e Caterina, «dottori della Chiesa» e non «dottoresse della Chiesa».
- Nomi o aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare sono ambigeneri, al plurale maschile fanno -i e -isti, al femminile -e e –iste (il collega e la collega, ma i colleghi / le colleghe; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste). Fa eccezione poeta / poetessa, ma questo si sapeva.
- I nomi terminanti in –tore al maschile, al femminile –trice (tutore / tutrice; rettore / rettrice; direttore / direttrice; ambasciatore / ambasciatrice; procuratore / procuratrice; istruttore / istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria; direi che questo è pacifico). Fanno eccezione col femminile in –tora (pl. –tore) pretore / pretora; questore / questora, e col femminile in -essa (pl. -esse) dottore / dottoressa.
- Nomi e aggettivi terminanti in –sore, al femminile –sora (pl. –sore); esempi: assessore / assessora; difensore / difensora; mentre fanno eccezione femminili consolidati come professore / professoressa.
- Terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in – ona (pl. -one): commilitone / commilitona; fa eccezione campione / campionessa.
- Nomi composti con vice–, pro–, sotto– e con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo. Se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria / vicario, sostituta / sostituto; es. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco / vicesindaca; sottoprefetto / sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.
- Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.
- Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).
E l’articolo davanti al nome?
«Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto» [perché sia sconsigliato dire il Manzoni o il Petrarca, oltre che la Callas, rimane per me un mistero].
L’articolo in versione integrale, che approvo solo in parte, ma almeno è una trattazione pacata dell’argomento, QUI.