Forse il caso più estroso di salvataggio degli ebrei da parte di una istituzione cattolica avvenne nell’ospedale Fatebenefratelli dell’isola Tiberina a Roma, uno dei più antichi della Città Eterna, dove i sanitari si inventarono un virus letale, la sindrome K, per preservare la vita degli ebrei che vi erano nascosti.
In occasione del rastrellamento tedesco, vari ebrei erano fuggiti dall’area del Ghetto, anche con l’aiuto di cittadini, sottraendosi all’accerchiamento dei militari. Oltrepassato il ponte sul Tevere, si erano diretti verso l’ospedale dei Fatebenefratelli sapendo di trovarvi un medico ebreo, il dottor Sacerdoti, che aveva cambiato la propria identità in quella di un inesistente dottor Salviucci. Il dottor Sacerdoti era arrivato nel 1941, provenendo da Ancona. Sarebbe stato disposto anche a svolgere mansioni inferiori alla sua qualifica, ma il dottor Borromeo lo assunse subito come medico. In un’intervista del 1988, il dottor Sacerdoti ricordò che in quel modo, trattato alla pari, aveva ritrovato se stesso, la sua personalità. Affermò anche che «senza un ordine dall’alto» non si poteva spiegare tutta quella rete di solidarietà delle istituzioni cattoliche nei confronti degli ebrei.
I frati accolsero prontamente gli ebrei e li nascosero, sotto la guida di fra Maurizio Bialek. Il responsabile della Comunità religiosa avvisò il cardinale protettore dell’Ordine, mons. Francesco Marchetti Selvaggiani, che era anche il Vicario del Pontefice nella diocesi di Roma. Il presule parlò con Pio XII, che approvò e sostenne le azioni umanitarie, e con i suoi più diretti collaboratori. Si presero contatti con enti religiosi e con singole persone che potevano fare da fiduciari (ad esempio il nipote del Pontefice) per agire in modo discreto.
La situazione nell’ospedale tiberino dei Fatebenefratelli
Degli ebrei, qualcuno rimase pochi giorni dentro l’edificio. Altri trovarono protezione per periodi più lunghi. Qualcuno volle uscire, soprattutto per cercare i propri cari, e poi rientrò. Esistono varie ipotesi sul numero degli ebrei rifugiati nel Fatebenefratelli, che varia da 46 a 61 e più. Ne sono stati identificati, al momento, 39.
In base alla testimonianza del medico F. Timoteo Cambuli, tutti i medici, specialmente i dottori Marini, Salvatore Casa, Tenaglia e Vittorio Sacerdoti, si mostrarono solidali con i frati e con il primario Giovanni Borromeo. In particolare, il primario rischiava l’arresto. Così, monsignor Montini (il futuro papa Paolo VI), Sostituto della Segreteria di Stato, gli fece avere una tessera che lo qualificava guardia nobile pontificia, per cercare di garantirgli qualche protezione.
Pane, amore e fantasia
La situazione si fece drammatica quando un ragazzo corse in ospedale per avvertire i frati e il dottor Borromeo che stavano per arrivare due camion tedeschi. Il primo veicolo giunse subito, ma il secondo aveva sbagliato strada e fece un ritardo di circa trenta minuti. Questo indugio consentì all’ospedale di organizzarsi. Fu Pietro Scarabotti, addetto alla manutenzione dell’edificio, a suggerire come nascondiglio un ambiente sotto la botola d’accesso alle fognature, nel reparto isolamento posto dietro l’altare della sala Assunta. La botola venne nascosta con un tappeto. All’ora dei pasti, alcuni giovani frati la sollevavano per consegnare il vitto alle persone nascoste. Più volte era la sorella dell’attore Aldo Fabrizi, conosciuta come la Sora Lella, a portar loro personalmente pentoloni di minestra. La Sora Lella non aveva ancora il famoso ristorante dell’Isola Tiberina, ma cucinava in casa e il cibo invenduto lo portava all’ospedale per i tanti rifugiati. Non c’erano solo gli ebrei, ma anche ricercati politici.
Nella sala, il dottor Borromeo aveva fatto ricoverare falsi degenti cui dette alcuni consigli: tutti dovevano rimanere in silenzio, solo lui avrebbe parlato con i tedeschi. I fantomatici «malati» dovevano tossire spesso voltandosi verso i militari. Quando le SS entrarono nell’ospedale, medici e religiosi spiegarono che in due sale speciali stavano curando i malati affetti da una terribile patologia, alcuni già in stadio terminale.
L’ispezione
Allorché iniziò l’ispezione, il primario, parlando in perfetto tedesco, descrisse al medico militare della Wehrmacht i casi clinici. Quando arrivò ai falsi degenti, Borromeo spiegò che si trattava di soggetti colpiti da una patologia devastante, terribilmente contagiosa. Se fossero sopravvissuti, i pazienti sarebbero stati segnati per sempre da paralisi, demenza, cecità. Qualche finto malato si mise a guardare i tedeschi con occhi terrorizzati, segno, secondo il primario, dell’inizio di una fase di istupidimento. I militari si ritirarono in fretta ed anche il loro medico preferì non trattenersi. I tedeschi non si azzardarono ad aprire le porte. Non vi avrebbero trovato malati, ma famiglia ebree: in una sala gli uomini, nell’altra donne e bambini. Ai falsi malati, i religiosi avevano procurato anche documenti e rifugi alternativi nei conventi e monasteri di Roma.
Altre persone oltra agli ebrei ottennero rifugio nel nosocomio. Furono ricoverate dal dott. Borromeo con false diagnosi e generalità nelle camere paganti. La loro cartella non era mai lasciata in giro. Non furono individuati.
Il morbo di K
Il nome, sindrome K, era terribile, ma la malattia non esisteva. Era solo una geniale invenzione del professor Giovanni Borromeo, luminare della medicina, e dei religiosi del Fatebenefratelli di Roma (l’ordine cinquecentesco fondato da San Giovanni di Dio) per salvare la vita di decine di ebrei perseguitati.
Il dottor Borromeo non dette un nome specifico alla malattia che si era inventato. Si ipèotizza che sia stato uno dei suoi aiuti, con un forte senso dell’umorismo, a definire «morbo di K» la patologia descritta ai tedeschi. Il «K» era l’iniziale del famigerato Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma. Era anche l’iniziale del tristemente famoso generale Albert Kesselring, comandante supremo di tutte le forze tedesche in Italia. C’era quindi, sì, una malattia, ma era rappresentata dall’odio umano… Per i suoi meriti, nel 2004, il Prof. Giovanni Borromeo riceverà dallo Yad Vashem il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni.
Giovanni Borromeo
Il dottor Giovanni Borromeo era nato a Roma il 15 dicembre 1898 da una famiglia profondamente cattolica. Il padre, Pietro, medico (nato nel 1869), era stato eletto deputato in Parlamento nelle file del Partito Popolare Italiano (fondato da don Luigi Sturzo ed altri nel 1919).
Giovanni s’iscrisse nel 1916 a medicina. Però, già nel mese di dicembre, dovette raggiungere il fronte. Fu decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Nel 1922 si laureò con il massimo dei voti e iniziò a praticare la sua professione. Vinse nel 1931 il concorso per primario, ma per accedere a tale livello era obbligatoria l’iscrizione al partito nazionale fascista. Egli preferì rimanere aiuto. Due volte vinse il concorso, due volte gli fu chiesta la tessera di iscritto al Partito, due volte rinunciò. Partecipò allora al concorso bandito il 18 marzo 1934 dall’ospedale dei Fatebenefratelli per il posto di ‘primario medico’ e lo vinse. Borromeo si distinse per le capacità diagnostiche. In situazioni incerte, non cessava di studiare il caso clinico fino a quando arrivava a conclusioni basate su prolungate indagini.
«Casa di Vita». Il riconoscimento: 21 giugno 2016
Per ricordare e onorare questa creatività salvatrice, la Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg ha attribuito all’ospedale il prestigioso riconoscimento di Casa di Vita. Nella cerimonia di riconoscimento poté parlare l’ormai anziana Luciana Tedesco, che durante l’accupazione nazista era una bambina di 10 anni e si era potuta salvare proprio in questo ospedale con la sua famiglia. «Credo che in questo ospedale non ci fosse nessun infermo. Tutte le persone che potei vedere erano sane. Eravamo dei rifugiati che qui abbiamo potuto trovare una casa».
Nella cerimonia venne ricordato anche il superiore della comunità di San Giovanni di Dio, il religioso polacco Maurizio Bialek, che negli scantinati dell’ospedale aveva installato una radio clandestina in continuo contatto con i partigiani del Lazio. Alla cerimonia partecipò un altro sopravvissuto, Gabriele Sonnino, che era entrato nell’ospedale il 16 ottobre 1943, a quattro anni. «C’erano bambini della mia età. Non potevamo fare niente tutto il giorno, e non sapevamo perché eravamo rinchiusi lì. Credevamo che fosse un castigo. Oggi sappiamo che era salvezza». Gabriele ricordó anche, con le lacrime agli occhi, fratel Mauricio Bralek: «Fu il mio secondo padre. Gli devo la vita».
L’accoglienza dei padri agostiniani a Roma
È il 16 ottobre 1943. Otto ore e mezzo di terrore, dalle 5.30 alle 14: la durata del rastrellamento degli ebrei a Roma. Di sabato, giorno scelto non a caso, perché è il giorno di festa per la religione ebraica. 1259 ebrei romani, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 bambini, sono prelevati con forza dalle truppe della Gestapo. In 1023 vengono subito deportati nel campo di sterminio di Auschwitz, da cui solo 16 sarebbero tornati. Altri, nelle ore notturne precedenti all’incursione, erano fuggiti in cerca di aiuto.
Moltissimi si presentarono a conventi e monasteri, indicati dalle liste consegnate clandestinamente dai vescovi ai comitati ebraici di assistenza. Alcuni avevano raccomandazioni influenti, altri bussarono alle porte in un disperato tentativo. Robert Leiber, segretario particolare di Pio XII, confermò nel 1961 alla «Civiltà Cattolica» che il Papa aveva fatto sapere che le case religiose «potevano e dovevano» dare rifugio agli ebrei.
Fra settembre e ottobre 1943 la Segreteria di Stato e il Vicariato di Roma fecero distribuire ai vari istituti religiosi cartelli attestanti la extraterritorialità del luogo per evitare perquisizioni e irruzioni. E questo non fu senza difficoltà, perché i nazisti non si facevano scrupoli di effettuare retate anche nei conventi. A Roma ne rastrellarono 60 su 235, press’a poco due conventi a settimana. La Città del Vaticano con le sue 26 aree extraterritoriali ha subito 24 aggressioni di guerra, non solo da parte dei nazisti, ma anche dalle Forze Alleate.
Gli ebrei protetti dagli agostiniani. I ricordi del card. Grech
Anche il Collegio Internazionale Santa Monica dei Padri Agostiniani accolse numerosi rifugiati. Tra questi appartenevano alla Comunità Ebraica Giampietro Stuccoli, Servio e Adolfo Di Castro. Il card. Prosper Grech arrivò, giovanissimo, allo studentato di Santa Monica nel 1946, ma ricordava gli eventi del 1943 – 1944 attraverso i racconti dei suoi maestri. Il suo ricordo QUI. È con affetto che lo presento, perché il professor Prosper Grech, agostiniano di nazionalità maltese, è stato il mio maestro di teologia biblica e a lui continuo ad ispirarmi nelle mie ricerche e nel mio insegnamento. Tra l’altro, il professor Grech mi disse che quando studiava a Cambridge aveva sentito parlare C.S. Lewis, e quindi la sua memoria rappresenta per me anche un filo diretto con il grande scrittore cristiano.