La tradizione del Presepe si sta affievolendo in Italia, travolta dalla moda nordica (ma veneranda) dell’albero di Natale e dalla figura commerciale di Babbo Natale. Senza dubbio la tradizione del Presepe è da rivitalizzare, ma… una poesia di Trilussa ci aiuta a riflettere sul valore del presepe come immagine evocativa dell’amore divino, e non come semplice artefatto senz’anima. (Un articolo sulla fede di Trilussa QUI. Il 21 dicembre ricorre l’anniversario della scomparsa avvenuta nel 1950)
Er Presepio
Ve ringrazio de core, brava gente,
pé ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate,
si de st’amore non capite gnente…
Pé st’amore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare ‘na voce
sperduta ner deserto, senza ascolto.
La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l’amore
è cianfrusaja che nun cià valore.
Presepe o presepio?
Si deve dire «presepe» o «presepio»? I due termini, veramente, si equivalgono. Già il latino aveva due forme, la più antica «praesaepes, -is», e «praesaepium», quest’ultimo legato anche alla sua presenza nella Vulgata.
Originariamente il significato del termine era recinto per il bestiame e «mangiatoia che si pone nella stalla», mentre il senso odierno si riferisce all’intera scena della Natività.
Con questo significato, almeno in Toscana, si usava la voce popolare «Capannuccia». Da essa deriva anche una locuzione: Fare il bue alla capannuccia = fingere di non capire.