Lettura continua della Bibbia. Il grido di Giobbe: «Egli fa perire l’innocente e il reo!»

«Egli fa perire l’innocente e il reo!»
Georges-Auguste Lavergne, Giobbe e i suoi amici (1892). Foto di VladoubidoOo – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30327065

Giobbe, esasperato dalle parole del secondo amico, si spinge ancora oltre nella sua accusa a Dio: «Egli fa perire l’innocente e il reo!».

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Dopo Elifaz, entra in scena Bildad. Mentre Elifaz si è presentato come un profeta, le argomentazioni di questo secondo amico sono legate al diritto sacrale, con l’equazione fedeltà = benedizione, infedeltà = maledizione, la cui validità sarebbe costantemente confermata dall’esperienza (8,8-10).

Il pensiero di Bildad è lineare: accettato il postulato evidente che Dio non può violare il diritto essendo Egli “il Giusto” per antonomasia (vv. 3.13.20), la situazione di Giobbe è chiara. I figli di Giobbe sono morti perché hanno peccato, ma Giobbe ha ancora la possibilità della conversione e quindi del ripristino dello stato di felicità.

Bildad: Dio non può essere ingiusto

Il ragionamento di Bildad è limpido come un ragionamento matematico:

8 3 «Può forse Dio sovvertire il diritto
o l’Onnipotente sovvertire la giustizia?».

Ergo, alla fedeltà a Dio deve corrispondere la ricompensa della felicità terrena.

Egli inizia con l’osservazione aprioristica dell’impossibilità divina ad essere ingiusto (8,2-4), da cui si deduce la necessità della conversione dell’uomo, unico a poter essere ingiusto: così potrà essere eliminata la tragicità della sua condizione (8,5-7).

Lo dimostra, sostiene Bildad, l’esperienza storica: l’empio non ha sussistenza. Giobbe potrà beneficiare di questo assioma (8,20-22).

Bildad si spinge nell’accusa più avanti di Elifaz, anche se in modo discreto: egli, infatti, non asserisce esplicitamente che Giobbe è un peccatore, ma lo lascia trasparire indirettamente. Alla fine,  nei vv. 21-22, riconduce a Giobbe in persona la situazione di cui ha trattato.

La sua tesi è corroborata da tre similitudini delicatamente rappresentate, quella del papiro che se tolto dall’acqua inaridisce come l’empio (8,11-13), quella della tela del ragno paragonabile alla instabilità del peccatore (8,14-15) e quella del rampicante strappato dalla terra (8,16-19).

Se Giobbe accetterà questa lezione, per lui tornerà a risplendere la gioia.

Giobbe replica a Bildad

La replica di Giobbe sovverte questo ragionamento: egli accetta, sì, il postulato secondo cui la ragione è sempre di Dio (9,2-4), ma non perché egli sia giusto e fedele. Semplicemente, quello di Dio è un potere assoluto e dispotico (9,5-10). Dio nella sua onnipotenza non deve rispondere a nessuno del proprio agire. Nessun tribunale lo potrebbe perseguire (9,11-14). Nessun uomo potrebbe far valere davanti a lui le sue ragioni (9,15-18) o se lo potesse sarebbe da lui ugualmente condannato (9,19-21). In tal modo, il mondo è lasciato in balia dei malfattori che Dio tollera. L’ingiustizia è totale (9,22-24).

9 16 «Anche se rispondesse al mio appello,

non crederei che ha ascoltato la mia voce,

17 lui, che mi schiaccia nell’uragano

e moltiplica senza ragione le mie ferite.

18 Non mi lascia riprendere fiato,

anzi mi sazia di amarezze.

19 Se si tratta di forza, è lui il vigoroso;

se si tratta di giudizio, chi lo farà comparire?

20 Anche se fossi innocente, il mio parlare mi condannerebbe;

se fossi giusto, mi dichiarerebbe perverso.

21 Sono innocente? Non lo so neppure io;

detesto la mia vita.

22 Però è lo stesso, ve lo assicuro,

egli fa perire l’innocente e il reo!

23Se un flagello uccide all’improvviso,
della sciagura degli innocenti egli ride.
24La terra è lasciata in balìa del malfattore:
egli vela il volto dei giudici;
chi, se non lui, può fare questo?».

Si oscilla, nelle risposte di Giobbe, fra manifestazioni di fiducia e constatazioni che forse questa fiducia era mal riposta. Giobbe non ha perso la sua fede in Dio; ha perso la sua fede nella bontà e giustizia di Dio. Sembra inutile essere giusti dinanzi a Dio, si sfoga Giobbe, perché Dio schiaccia tutti nello stesso modo. L’affermazione di Giobbe è quasi blasfema.

«Ora conosco che pensavi così»

Giobbe sente sfuggire la sua vita tutta intessuta di sofferenza e gemiti (9,25-28). Chiedere il perdono, cercare di purificarsi non servirebbe a nulla davanti a un simile giudice i cui giudizi sono insindacabili (9,29-31). Possibile che non esista un arbitro o un mediatore tra Dio e l’uomo (9,32-35)? Perché Dio gli è così nemico pur conoscendo la purezza interiore di Giobbe (10,1-7)? Il Creatore che ha plasmato l’uomo con tanta passione e tanta cura, vorrà forse distruggere la sua creatura? (10,8-12).

10 8 «Le tue mani mi hanno formato e modellato, integro tutt’intorno;

ora vorresti distruggermi?

9 Ricordati, di grazia, che mi hai fatto di argilla,

e mi fai ritornare in polvere!

10 Non m’hai colato come latte

e fatto coagulare come formaggio?

11 Di pelle e di carne mi hai rivestito,

di ossa e di nervi mi hai intessuto.

12 Vita e benevolenza mi hai concesso,

e la tua provvidenza ha custodito il mio spirito.

13 Eppure nascondevi questo nel tuo cuore;

ora so che pensavi così».

«Ora so che pensavi così». Adesso so, anzi «conosco», ho toccato con mano che questo era il tuo intento. Ricordiamo questo verbo «conoscere», perché lo ritroveremo a suo tempo. Giobbe ha fatto esperienza (questo vuol dire il verbo yada‘ nella Bibbia), ma è quella totale e definitiva? Nel suo sfogo ormai Giobbe vede Dio come un nemico che lo aveva creato con un atto di amore e di benevolenza, eppure premeditava che Giobbe sarebbe finito nei tormenti.

10 14 «Se pecco, tu mi sorvegli
e non mi lasci impunito per la mia colpa.
15Se sono colpevole, guai a me!
Ma anche se sono giusto, non oso sollevare il capo,
sazio d’ignominia, come sono, ed ebbro di miseria.
16Se lo sollevo, tu come un leone mi dai la caccia
e torni a compiere le tue prodezze contro di me,
17rinnovi contro di me i tuoi testimoni,
contro di me aumenti la tua ira
e truppe sempre nuove mi stanno addosso.

20Non sono poca cosa i miei giorni?
Lasciami, che io possa respirare un poco
21prima che me ne vada, senza ritorno,
verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,
22terra di oscurità e di disordine,
dove la luce è come le tenebre”».

Se Dio è proprio un tale implacabile nemico di Giobbe, giusto sarebbe che lo lasciasse in pace, «Lasciami respirare un poco», abbandonandolo alla morte (10,13-22). Non c’è speranza, dunque?