«È una babele!». Si dice comunemente, quando siamo di fronte, o in mezzo, ad una confusione indescrivibile. Il motivo è ovvio, se si conosce minimamente l’episodio biblico narrato in Genesi 11,1-9. Soli 9 versetti, ma di quale efficacia!
Questa umanità che proviene nomade dall’Oriente si vuole impiantare saldamente in un luogo in modo da non poterne essere più scossa, ma vanamente. Al suo orgoglio fa da contraltare la sua piccolezza: la torre con cui vuole raggiungere il cielo allo scopo di rendere grande il suo nome è in realtà così minuscola che il Signore deve scendere per vederla (il senso, naturalmente, è metaforico). All’orgoglio consegue solo la confusione: la disgregazione della società e della lingua. L’orgoglio umano non cementa la società, ma la sgretola: e l’incomunicabilità è il segno di questa disgregazione profonda. Una confusione totale. Da qui, l’espressione proverbiale: «è una babele!».
Quella orribile forza
Un saggio di che cosa significhi tutto questo ci è offerto da uno straordinario romanzo di C. S. Lewis, Quella Orribile Forza, un romanzo distopico in cui la fantascienza sfocia nel fantasy, e che fu apprezzato anche da George Orwell, che di distopie se ne intendeva…
Il titolo, That Hideous Strength, allude proprio alla torre di Babele, attraverso la citazione di un poema di Sir David Lindsay. L’azione, contrariamente ai primi due volumi della Trilogia interplanetaria (Lontano dal Pianeta silenzioso e Perelandra), si svolge interamente sulla terra, ed è inizialmente molto banale, imperniata su di una giovane coppia abbastanza mal assortita come tante altre. I due sposi si troveranno come per caso su due fronti contrapposti, lei involontariamente su quello del Bene e lui scioccamente su quello del Male, rappresentato da un gruppo di studiosi che vuole sterilizzare la vita sulla terra in nome del trionfo della scienza sull’uomo. Ma il complotto di chi vuole sostituire la scienza a Dio non avrà successo, genererà piuttosto un’altra Babele. Una gran confusione nella sala del banchetto:
«Il vicedirettore non poteva comprendere quanto avveniva, poiché gli sembrava di stare pronunziando il discorso divisato. Ma l’uditorio lo sentiva dire: “Tagnore e fugnori, io tapisco, mommessendo che noi tutti, hem, molto ripidamente respingiamo il difensibile, benché mi auguro gabinetto di decenza, Aspasia, che luccica di aver scelto il nostro redento ispettore questo ingannando. Sarebbe, hem, essere… molto… dell’obblizapione di riccessia…”.
Come risultato si udirono in diversi punti, e nello stesso istante, nuove parole senza senso dette con grande varietà di toni. Frost fu l’unico dei capi che non tentò di parlare. Invece scrisse a matita poche parole su un pezzo di carta e, fatto un cenno a un cameriere, gli spiegò sempre a cenni che doveva consegnarlo alla signorina Hardcastle… Il messaggio diceva: “Ottusi frpperi intantaneamente ad appuntito bedluroide. Urgente. Costo”» (edizione italiana del 1953, Mondadori, pag. 432-433).
Dalla bolgia al bailamme… alla baraonda
Credo che questa pagina di C.S. Lewis renda abbastanza l’idea. Ma una babele non è solo una confusione del linguaggio: è una situazione caotica, un luogo di disordine e confusione. Dantescamente si direbbe «bolgia»: Dante impiega questo termine, che indicava una tasca, borsa o valigia, usandolo per denominare le Malebolge, le fosse circolari in cui nell’ottavo cerchio dell’Inferno sono puniti i fraudolenti. Da qui l’espressione «bolgia infernale» per designare un luogo o una situazione in cui si sta male e non si capisce niente a causa del caos che vi regna.
In termini più popolari, questa situazione di gran confusione si dice «bailamme». Ma la semplicità del termine è ingannevole: in realtà, la parola viene dal turco «Bairam» che indica la festa islamica con cui si conclude il digiuno del Ramadan; seguirà, dopo 70 giorni, il grande Bairam, ancora più chiassoso. La parola sta a indicare, dunque, il gran fracasso di una folla numerosissima che si accalca insieme.
Esiste un’altra parola ad esprimere lo stesso concetto: «baraonda»; questa volta, se la parola è passata in italiano dallo spagnolo «barahunda», sembra però che venga… dall’ebraico; e ci riporta alla Bibbia.
Deriverebbe addirittura da «Baruk Adonai», «Benedetto il Signore», nel senso tuttavia di una formula di preghiera che in un’assemblea numerosa e confusa non sarebbe capita: può succedere. Non vorrei però che questa etimologia fosse del genere «Lucus a non lucendo»: cioè, quelle etimologie arbitrarie in cui l’origine di una parola, in mancanza di meglio, si ricava dall’assenza di attributi piuttosto che dalla presenza degli stessi. Varrone spiega la parola «lucus» (bosco) con l’assenza di luce che caratterizza il bosco; sulla stessa linea, S. Isidoro spiegherà «Canis a non canendo», «[si chiama] cane perché non canta…». Per questo, l’espressione «Lucus a non lucendo» ha assunto il significato di «ipotesi campata in aria».