
Caino porta avanti la sua contesa col fratello tacendo; l’uccisione dilata eternamente questo silenzio. Sarà di nuovo il Signore a parlare: «Dov’è tuo fratello?». Ma neppure di fronte ad una domanda precisa Caino acconsente a guardarsi intorno, a guardarsi dentro. Il suo silenzio si trasforma in menzogna.
«Dov’è tuo fratello?»
Come nel racconto della caduta, anche qui dopo l’azione dell’uomo Dio entra in scena, e lo interroga. Ma questa volta non domanda all’uomo «Dove sei?», ma «Dov’è tuo fratello?». La questione che Dio pone si riferisce alla responsabilità nei confronti del fratello. Non solo di noi stessi siamo responsabili, ma anche di coloro che hanno a che fare con noi.
Parole non vere
Davanti a questo preciso interrogativo, Caino risponde affermando il falso («Non lo so»), negando che ci sia una vittima, negando il fratello (lo uccide nuovamente con la sua negazione) e ribattendo con un’altra domanda retorica e menzognera («Sono forse io il guardiano di mio fratello?»). La risposta alla domanda di Caino, se non fosse solo retorica, sarebbe affermativa: sì, a te il Signore ha affidato la cura del fratello, come al fratello ha affidato la cura di te.
Anche Caino, come già Adamo, rifiuta di assumere la sua responsabilità, ma pensa solo a negare – a negare l’evidenza. Per la prima volta nel racconto Caino parla, ma parla con parole prima di falsità e poi di derisione, sempre per negare la propria responsabilità. La fa con una battuta: «sono io il custode del pastore?». Il pastore è per definizione il custode (shomer) del gregge: sono io il custode del custode?
La voce del sangue
La sua risposta è una sorta di replay delle risposte già date dal padre e dalla madre: «è stata lei», «è stato lui…». Il Signore risponde con un’altra domanda:
«Che cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello sta gridando a me dal suolo! E ora maledetto tu dal suolo che ha aperto la sua bocca per ricevere i sangui di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più il suo raccolto: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» (Gn 4,10-12).
Anche se negata, la violenza rimane, con tutte le sue conseguenze. Queste parole pongono Caino davanti alla gravità dell’azione compiuta e lo invitano a uscire da sé e ad ascoltare la voce del sangue che sta gridando dal suolo. Qui abbiamo una particolarità grammaticale che in italiano non è possibile rendere: «sangue» è al plurale, «i sangui» di tuo fratello… Questo plurale «sangui» non è sfuggito all’interpretazione ebraica:
«R. Judan disse: Il sangue di tuo fratello non sta scritto qua, ma: i sangui, cioè il suo sangue, ed il sangue della sua discendenza».
Non è solo Abele, ma anche la sua discendenza a scomparire dalla faccia della terra, e con essa tutte le possibilità di vita che da essa potevano derivare e che non potranno esistere. Non esisterà una genealogia di Abele, non solo la sua vita è spezzata ma anche quella di tutti i suoi potenziali discendenti; un peccato capitale in una visione in cui ogni uomo che nasce è un’immagine di Dio su questa terra. E proprio la terra, che ha bevuto questi «sangui», si ribella e maledice Caino. Non è Dio che maledice, ma il suolo: la terra non darà frutto, e Caino, l’agricoltore, il sedentario, sarà errabondo e ramingo sulla terra. Tuttavia…