Dieci Comandamenti e Discorso della Montagna: un confronto

Dieci Comandamenti. Foto di falco da Pixabay
Foto di falco da Pixabay

Mi hanno chiesto quale rapporto vi sia fra Dieci Comandamenti e Discorso della Montagna: contrapposizione o continuità? Continuo perciò il viaggio nella Bibbia, affrontando il tema della Legge.

Ottenuta la libertà dall’Egitto, Israele si addentra nel deserto, ma deve ancora diventare un popolo. Sarà l’Interlocutore divino a dargli una identità: Dio, offrendo la sua alleanza, da una massa confusa trae una nazione. Lo fa attraverso il dono della Legge.

I 613 precetti

Non voglio soffermarmi sulla complessità della legislazione mosaica, perché i precetti che la compongono sono stati contati dai rabbini precisamente in numero di 613,  e storicamente si sono sviluppati lungo i secoli attraverso vari codici legislativi. Dirò solo che il nucleo più antico è rappresentato proprio dal Decalogo, cui seguiranno altri corpi di leggi come il Codice dell’Alleanza risalente all’insediamento in Palestina (XIII secolo a.C.), il Codice deuteronomico del VII secolo, il Codice di Santità del VI secolo a.C… Ognuno di essi rispecchia una particolare fase dello sviluppo sociale e risponde a sensibilità e problematiche etiche particolari.

Per il momento ci limitiamo alle Dieci Parole, ossia al Decalogo; però voglio prima chiarire qual è il valore simbolico dei 613 precetti.

I precetti si dividono in negativi o divieti (non fare questo, non fare quello) e positivi o comandi (fa’ questo, fa’ quello). I precetti negativi sono 365, i positivi sono 248.

Il numero 365 ha un valore simbolico chiaro a tutti: è il numero dei giorni dell’anno, un numero solare, cosmico. Significa che in tutti i giorni dell’anno il credente deve osservare la Legge, e che nella Legge si trova ricapitolata tutta la natura delle cose.

Il numero 248 ha un valore simbolico non riconoscibile se non si sa che per la scienza rabbinica le parti del corpo umano sono, appunto, 348, un numero antropologico. Significa che il credente deve osservare la Legge con tutto se stesso, e che nella Legge si trova ricapitolato tutto l’uomo.

Ma qual è il senso di questa Legge? Qual è il suo centro unificante?

Le Dieci Parole

I Dieci Comandamenti

Vi prego di guardare questa scena del film I Dieci Comandamenti di Cecil B. DeMille QUI.

Se enumerate i comandamenti man mano che nella scena del film vengono scritti, vi accorgerete che sono enunciati secondo la versione protestante: «Non ti farai immagine alcuna» è considerato il secondo comandamento, mentre i divieti di desiderare la donna e i beni del prossimo sono unificati (come nel testo di Esodo 20,17), di modo che il numero totale risulta di dieci.

Nella versione tradizionale cattolica il divieto dell’idolatria è assorbito dal precedente divieto di avere altri dèi, mentre sono disgiunti i divieti del desiderio della donna altrui e della roba altrui (nono e decimo comandamento), come nel testo di Deuteronomio 5,21.

Nella versione ebraica, il primo comandamento è «Io sono il Signore Dio tuo», riconoscimento che pone le basi di tutto il resto; il divieto delle immagini idolatriche, come nella versione cattolica, è unificato col divieto di avere altri dèi (secondo comandamento); i divieti del desiderio sono uniti (decimo).

A parte questi dettagli, il significato generale è identico. Il senso profondo del Decalogo è quello del rispetto per Dio e per l’uomo nelle sue varie sfaccettature:

  • Il riconoscimento della Unicità di Dio (divieto di idolatria)
  • Il rispetto della sua Trascendenza (rispetto del Nome)
  • La proclamazione della sua Santità (consacrandogli il settimo giorno, che appartiene a Lui e non all’uomo)
  • Il rispetto della vita nella sua origine (onorare il padre e la madre)
  • La preservazione della vita, della famiglia, dell’onorabilità, dei beni dell’uomo.

Se si analizzassero i Dieci Comandamenti uno per uno il discorso si farebbe lungo, e non è questo il momento. Mi limito a cogliere il profondo senso del rispetto dell’Altro, che si tratti di Dio o del proprio simile non ha importanza; ed anche a sottolineare che se la dimensione verticale del rispetto (che lega l’uomo a Dio) non si innesta in quella orizzontale (la pratica della giustizia sociale e il rispetto nei rapporti interpersonali), la dimensione verticale si fa vuota e cade.

Dirò anche che i rabbini si sono sempre chiesti quale fosse il principale dei comandamenti. Non c’è dubbio: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza» (Dt 6,5); «Ama per il tuo prossimo come per te stesso» (Lev 19,18). Notate la preposizione per (ebraico le) che rende possibile eseguire questo precetto: non si può amare a comando con sentimento ed emozione, ma si può amare scegliendo per il prossimo ciò che si vorrebbe scegliere per noi.

Il Discorso della Montagna

Discorso della Montagna. Di Wolfgang Sauber - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42826104
Di Wolfgang Sauber – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42826104

Il Discorso della Montagna, Manifesto del Regno dei Cieli, richiederebbe un discorso ancora più lungo. Ma noi cercheremo solo di addentrarci nel cuore tematico del sermone, premettendo qualche parola di presentazione.

Perché un Discorso sul monte?

L’ambiente parla da solo: la montagna è il luogo della rivelazione e dell’alleanza. Sul monte Mosè ricevette la Legge di Israele, sul monte Gesù dona la Legge del Regno. Il parallelo è evidente: per Matteo, Gesù è il nuovo e definitivo Mosè. Sul Monte delle Beatitudini, che nel testo di Matteo resta indeterminato quale luogo più teologico che geografico (la tradizione lo ha identificato con una collina presso Tabga sul lago di Tiberiade), la legge del Regno non sostituisce quella antica, ma la rivitalizza nello spirito.

L’articolazione del Discorso (Matteo 5-7)                                                                       

Il discorso si articola in cinque parti:

  1. Le beatitudini (5,1-16): l’identikit del discepolo
  2. Il compimento della Torah (5,17-48): la giustizia
  3. I tre pilastri (6,1-18): elemosina, preghiera, digiuno
  4. La fiducia nel Padre (6,19-7,12)
  5. Fede e opere (7,13-27)

Cogliamone gli elementi essenziali.

Le beatitudini (5,1-16): l’identikit del discepolo

La beatitudine non è un augurio ma una constatazione: chi così si comporta è già “beato”; così come il suo contrario è una constatazione e non un augurio di male, “guai a…”: chi così si comporta è già “inguaiato”. Beati non sono i ricchi, i sazi, i felici e famosi di questa vita, ma, al contrario, coloro che a questo tipo di prosperità non attaccano il loro cuore.

Le beatitudini sostanzialmente dipingono l’identikit del Cristo e quindi del cristiano come povero, affamato, afflitto per il male del mondo, perseguitato. È Gesù il vero povero che si espropria di tutto, anche di se stesso, in cuor suo, prima ancora che nella rinuncia ai beni materiali.

Matteo specifica anche i caratteri della mitezza e della pacificità, della purezza e della misericordia. Questi segni distintivi sono un fatto interiore prima ancora di un dato esteriore, una intima conformazione a Cristo propria del discepolo; una sorta di Dna ricevuto nel battesimo che dobbiamo custodire e sviluppare per tutta la vita.

Così, per essere figli di Dio bisogna essere facitori di pace: non solamente temperamenti pacifici o compilatori di accordi e tregue di convenienza, ma veri operatori di scelte e costruttori di pace. La pacificazione, con la fame e la sete della giustizia, richiede una lotta, sicuramente dentro di noi, forse anche fuori di noi: «Quando si vuole la pace nel mondo, bisogna cominciare con l’averla in sé» (G. Cesbron). Tuttavia, non ci può essere conformazione a Cristo che non esca anche all’esterno con un’opera per la giustizia e per la pace.

Tutto questo ha un costo: la persecuzione per la causa del Regno. Eppure è attraverso il travaglio che si viene alla luce; conformandosi a Cristo, sopportando le avversità il discepolo diviene sale della terra e luce del mondo. Il sale è un elemento indispensabile per la vita ed è prezioso perché non si trova ovunque. È metafora per la sapienza: ciò che è senza sale è sciocco, che ha anche il senso di «stupido».

Inoltre, il sale dà sapore, ma niente può dare sapore al sale. Il sale deve insaporire, la luce deve illuminare, ma non derivano da altro se non da Colui che è Sapienza e Luce del mondo. Perciò non si tratta di ostentazione, ma di testimonianza: il discepolo deve far assaporare Cristo, far trasparire la sua luce. E Gesù, col dire questo, presuppone anche che il sale possa perdere il suo sapore e la luce possa essere offuscata. Essere sale e luce è la condizione nativa del cristiano ricevuta in dono nel battesimo; continuare ad essere sale e luce dipende da una scelta.

L’adempimento della Torah (5,17-48): la giustizia

Al centro del discorso della montagna (vi ricorre 5 volte, non a caso: 5,6.10.20; 6,1.33) sta la parola chiave giustizia / dikaiosyne, fondamentale in Matteo. Per “giustizia” non si intende quello che noi pensiamo, la giustizia retributiva o punitiva, dare a ciascuno il suo. Giustizia di Dio è la volontà salvifica verso l’uomo, giustizia dell’uomo è la risposta di fedeltà radicale alla volontà di Dio e non una semplice ineccepibilità nella osservanza esteriore della Legge. La “giustizia” del cristiano, poi, è l’orientamento a Cristo che lo rende nuova creatura, a differenza della giustizia degli antichi farisei che consisteva nella corretta esecuzione di una legge.

Qui troviamo una prima distinzione netta, non con l’Antico Testamento, ma con l’interpretazione che della Legge veniva data nel fariseismo: nel fariseismo conta quel che si fa, non quel che si crede e si è interiormente. Naturalmente, per “fare” bisogna anche “essere”; sarebbe una stortura pensare che l’uomo consista nella sua azione.

Invece, la fedeltà del discepolo al Cristo viene esemplificata nelle cosiddette “antitesi”. La formula «Avete udito» non si riferisce direttamente alla S. Scrittura, ma alla tradizione orale che la interpreta; «ma io vi dico» non è antitesi ma approfondimento della stessa; tuttavia, lo «Io vi dico» esprime una autorità inaudita in Israele che non sia quella di Dio, è frase divina.

Le “antitesi” dunque in realtà non sono tali, in quanto il secondo elemento della frase non si oppone al primo, ma ne mostra il senso più pieno. Gesù non è venuto ad abolire niente di buono che sia esistito prima di lui, tanto meno la legge donata da Dio al suo popolo, ma a rivelarne un senso più profondo ed a darne perfetto compimento. Né uno iota né un apice della Legge, i segni più piccoli della scrittura ebraica, saranno disattesi; la iod è la più piccola lettera dell’alfabeto, l’apice un minuscolo segno di lettura. Noi diremmo «non cambierà una virgola»: niente è senza importanza. Ogni cosa deve essere compiuta; e il compimento è il Regno di Dio.

Gesù viene per compiere, dice Matteo, e il verbo plerόo significa sia riempire che mettere in pratica: l’idea fondamentale è quella di un recipiente vuoto che aspetta di essere riempito per poter adempiere alla sua funzione; di una forma vuota che per avere consistenza attende di essere colmata. Anche se proviene da Giovanni e non da Matteo, l’immagine più vicina è quella delle sei idrie di pietra che alle nozze di Cana giacciono sterilmente vuote aspettando chi le riempia; che il parallelo sia voluto o meno, anche qui sono le forme vuote che giacciono inutili aspettando il proprio senso più profondo.

«Non uccidere», «non commettere adulterio», «non spergiurare», «occhio per occhio» ovvero punisci il crimine equamente, «ama il prossimo» e odia il nemico: anche i pagani fanno questo. La legge di Dio chiede di più. La morale proposta dal Discorso della Montagna è eroica, sfida le convenzioni e si conforma al sentire di Cristo, che non è slancio sentimentale ma ferma decisione di agire come Egli agirebbe, di comportarsi con gli altri come si vorrebbe gli altri si comportassero verso di noi.

La proposta? Essere perfetti come è perfetto Dio! Sembra inattuabile, assurda. Come si può uguagliare la perfezione di Dio? Ma il termine greco, e l’ebraico ad esso sottostante, ci vengono in aiuto. Téleios, perfetto, non significa quello che noi intendiamo, e non si riferisce alla perfezione assoluta, l’esenzione totale da ogni difetto e da ogni male. Dio nell’Antico Testamento non viene mai chiamato tamim, perfetto, perché tale nozione è di ordine rituale e riguarda l’agnello pasquale, integro, senza macchia (Es 12,5 LXX). Indica quindi l’offerta sacrificale, l’offerta di tutta la persona a un Dio che si offre interamente all’uomo per quanto l’uomo lo possa accogliere.

I tre pilastri (6,1-18): elemosina, preghiera, digiuno

Ecco una nuova messa a punto del concetto di giustizia: non è l’irreprensibilità, l’equità e nemmeno lo zelo, ma il rapporto intimo con il Padre che è nei cieli, e si esprime nelle pratiche di pietà dell’elemosina, della preghiera e del digiuno, i tre pilastri della vita spirituale. Tutte e tre erano praticate assiduamente anche dagli osservanti ebrei, soprattutto dai farisei, ma Gesù ne propone una diversa interpretazione. Non conta tanto l’opera compiuta quanto l’umiltà e la carità con cui si compie. Ancora una volta, il discepolo è colui che si conforma a lui nella sincerità.

La figura opposta è quella dell’ipocrita, l’inautentico, il simulatore che recita una parte a beneficio degli astanti o anche, se non ci sono spettatori esterni, a beneficio di se stesso, del proprio ego. Matteo usa 13 volte la parola hypokrités che indicava l’attore di teatro, uno che recita una parte invece di essere se stesso.

Questa è la sezione centrale del Discorso della Montagna e il Padre nostro è al centro di questo centro. Anche nel caso della preghiera la polemica di Gesù si indirizza verso l’ostentazione: chi viene ammirato dagli uomini ha già ricevuto la propria ricompensa. La necessaria riservatezza della preghiera non è in contrasto con la doverosità della preghiera comunitaria: la camera / tameion in cui rinchiudersi per pregare non è la camera da letto della casa, ma la propria interiorità, il proprio cuore. Tameion è la stanza di cui solo il proprietario custodisce la chiave, nel palazzo dei benestanti la stanza del tesoro, nella casa dei poveri la dispensa. Dove solo noi abbiamo accesso, lì dobbiamo ritirarci per pregare e incontrare Dio. È il luogo del cuore-a-cuore con Dio, anche quando la preghiera è pubblica.

Ma c’è un’altra tentazione di inautenticità della preghiera: il verbalismo ovvero la ripetizione magica di parole, ponendo nella esattezza della formula e nella sua ripetitività la fiducia dell’esaudimento. Dei pagani viene cioè stigmatizzato l’atteggiamento magico, ossia il ritenere che la divinità tenga conto del numero di volte in cui viene supplicata e dell’esattezza delle formule con cui ciò viene fatto, in senso meccanico: con la convinzione di ottenere ciò che si chiede se il rituale è esatto.

Gesù insegna invece che Dio è un Padre che vuole un colloquio intimo con i suoi figli, ed è questa la grande rivoluzione cristiana. La paternità divina è molto presente anche nell’Antico Testamento, ma nessun contemporaneo di Gesù si sarebbe rivolto a Dio individualmente chiamandolo «Padre». Nel discorso della montagna invece questa espressione è centrale e vi ricorre 10 volte: perché l’identikit del discepolo è modellato su quello del Figlio e Gesù indubbiamente chiamava Dio Padre, Abbà, anzi «Babbo»…

La fiducia nel Padre (6,19-7,12)

Il cuore del discorso della montagna è dunque il senso della paternità di Dio, perciò il discepolo deve affidarsi al suo amore provvidente. La fiducia deve essere riposta nel vero Dio e non nel falso dio che è Mammona (ma’amum), parola aramaica che designa la ricchezza e che, significativamente, ha la stessa radice ’mn del verbo «aver fiducia», riporre la propria certezza in qualcosa (da qui anche amen). Mammona, la ricchezza, appare essere il vero concorrente di Dio. L’identikit del discepolo porta dunque, ancora, il marchio della povertà; «quanto è più facile per un povero confidare in Dio! Perché se uno è ricco tutti i suoi beni gli gridano: Confida in me» (M. Buber).

Non si tratta di spogliarsi di tutti i beni, ma di non farne tesoro, di non porre lì il nostro cuore, perché sarebbero facile preda di tarme, ruggine e ladri. Il denaro è un buon servo ma un cattivo padrone. La scelta deve essere radicale, perché il legame con la ricchezza comporta una preoccupazione che frammenta la vita e la aliena. La buona sollecitudine per gli altri arricchisce l’esistenza, è contraria alla fede l’inutile agitazione, l’affanno che lacera l’anima facendola vivere nell’inquietudine per il domani mentre solo l’oggi è la dimensione della vita reale: l’eternità è un eterno presente, non un eterno futuro che non giunge mai.

Le frasi si snodano passando da un concetto all’altro, dal vero tesoro del cuore alla luce del corpo, dal servizio di Dio alla fiducia nella sua Provvidenza, dalla misura del giudizio alla prudenza nella testimonianza, dall’insistenza nella preghiera alla regola d’oro della carità.

In questo modo Gesù ci pone davanti a noi stessi, anche alle nostre manchevolezze: il paradosso della trave nell’occhio nostro in confronto alla pagliuzza nell’occhio dell’altro serve a richiamarci al fatto che solo a condizione di essere consapevoli della nostra miseria ci si possa permettere di correggere fraternamente gli altri. Porre gli altri sotto la luce spietata del nostro giudizio, senza difesa alcuna, guardando l’esterno senza poter vedere il cuore… questa è l’offesa alla misericordia di Dio.

Ciò non significa che si debba essere lassisti: non si farebbe il bene di nessuno, neppure di colui verso il quale fossimo troppo indulgenti. Il centro del rapporto con gli altri è la misericordia, il che non comporta che si abbandoni la comunità a se stessa, di modo che i deboli vengano schiacciati dai più prepotenti. Non si giudica il cuore della persona, perché solo Dio lo vede; si valutano le sue azioni nei loro effetti sugli altri, partendo da una stima severa di noi stessi.

Chi ha consapevolezza di aver ricevuto tanto dalla bontà divina deve ridare con la stessa misura. Non è una questione di tornaconto comportarsi con gli altri come si vorrebbe che gli altri facessero con noi. Questo è il comandamento essenziale che riassume tutta la Scrittura.

Fede e opere (7,13-29)

Dura è anche la parola che riguarda i falsi profeti e la loro rapacità, i cattivi alberi che non fanno frutto o ne producono di cattivi o di disutili, le guide spirituali che si ammantano di bontà per carpire le anime ma lo fanno per proprio interesse, soggiogando gli altri per esercitare potere. La Chiesa non vende ricette di felicità, anzi spesso l’«essere» autentico non coincide con il «ben essere» che viene tanto pubblicizzato.

L’«essere» autentico è quello della fede. È la fede è reale solo se si concretizza nelle opere, altrimenti ci si può ridurre ad un vano ripetere «Signore, Signore» (cfr. Gc 2,17: «La fede, senza le opere, è morta»). La vera fede deve dare veri frutti, in virtù di una scelta radicale: la porta stretta e non la larga, gli alberi da frutto e non quelli inutili, opere e non parole vuote, roccia e non sabbia.

La roccia è la carità di Cristo, ed è su questa che si fonda l’intero Discorso della Montagna, che così viene a termine: un discorso che è sintesi del Vangelo secondo Matteo.

Un confronto: Dieci Comandamenti e Discorso della Montagna

Allora, in breve: il cuore del Decalogo, e di tutta quanta la legislazione mosaica, è il rispetto dell’Altro, Dio ed uomo, che deve governare tutta la vita. I Dieci Comandamenti non possono essere considerati da soli, ma nel contesto dell’antica Legge. Il centro unificante della Legge è il precetto dell’amore, di Dio e dell’uomo, ed i rabbini lo sapevano bene. Questo precetto fondamentale viene specificato in una miriade di precetti secondari, gli altri 611, Decalogo compreso. Il Decalogo potrebbe essere paragonabile alla legge naturale: è applicabile da ogni uomo, al di là del popolo d’Israele. L’unico precetto cultuale che distingue l’israelita dai goîm, nei Dieci Comandamenti, è il precetto della santificazione del sabato; il resto parla un linguaggio universale.

Allora, che cosa ha portato Gesù di diverso, o di più?

La Nuova Legge del Discorso della Montagna non costituisce una rottura con l’antica; ne costituisce, invece, il compimento e il perfezionamento. Mette in luce quello che nell’interpretazione umana poteva essere sfuggito e lo rivitalizza; porta a compimento quello che nell’antica legge era rimasto in potenza. Rimette in primo piano un «essere», piuttosto che un «fare»; la conformazione a Cristo e quindi a Dio, piuttosto che l’esecuzione di precetti.

Anche il nuovo concetto di giustizia va in questa direzione: si tratta di un orientamento profondo a Cristo, verso il quale tutto l’Antico Testamento convergeva senza – ovviamente – raggiungerlo. È la pienezza dell’antica Legge. Agire come Cristo agirebbe nelle nostre condizioni. Una morale eroica, insomma.

Non discontinuità con il Decalogo, affatto, ma restituzione del Decalogo al suo pieno significato, contro tutte le cattive interpretazioni degli uomini; e compimento di quelle che erano le sue potenzialità. Dal rispetto profondo dell’altro, immagine di Dio, al dare la vita per lui, come Gesù insegnerà nel discorso giovanneo della Cena: «Come io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Quell’Ho amato dice tutto: il verbo è all’aoristo, un tempo greco che indica un’azione compiuta come un fatto in sé. È la croce del Signore. È detto tutto.