Viaggio nella Bibbia. Dinah: una rilettura

Dinah: una rilettura
Foto di Nanne Tiggelman da Pixabay

In sintesi: che cosa ci dice, oggi, il cap. 34 di Genesi? Dopo tutto quello che abbiamo affermato della storia di Dinah, occorre adesso farne una rilettura. Infatti, a un livello immediato, nella nostra cultura, questo racconto suggerirebbe quello che suggerì a me quando lo lessi da bambina: che una ragazza non deve andare in giro da sola, neppure per curiosità, perché si procurerebbe sicuramente grossi guai. Altri tempi, altre persone… E il messaggio di questa controversa narrazione non può certo limitarsi solo a questo.

Dinah: una prima rilettura

Prima di tutto, il racconto originario parla dell’innamoramento di una coppia e della conversione di una città. Sono gli strati successivi di rilettura ad aver attualizzato l’antica storia in una chiave molto diversa, quella di una necessaria presa di distanza fra il popolo dell’Alleanza e i pagani corrotti e corruttori. A quel punto, infatti, l’idea che i nativi del paese potessero diventare israeliti con una semplice circoncisione veniva a contraddire l’idea secondo cui gli israeliti erano esclusivamente i discendenti del patriarca Giacobbe, e l’altra idea, di carattere storico, secondo cui gli ebrei trucidarono completamente i Cananei quando entrarono nel paese (Gs 6 -11). Dato il divieto del Deuteronomio di contrarre matrimoni misti, gli scribi successivi rielaborarono la storia primitiva trasformandola in un massacro di nativi e adducendo l’implicita giustificazione che questi non erano stati ai patti.

Dinah: nessuna voce in capitolo

A questo punto, la storia d’amore di Dinah è diventata uno stupro. Ma il bello è che nessuno si preoccupa dei suoi sentimenti, né il padre, né i fratelli: forse, il povero giovane che se ne era innamorato; ma neppure il narratore la prende in considerazione. Dinah non ha voce, non ha cuore, non ha futuro. La sua vita sparisce in dinamiche storiche molto più grandi di lei.

Analizzando il passo nel contesto del lessico e della mentalità di quel tempo e di quella cultura, si comprende che a rigor di termini Dinah non è stata violentata, ma piuttosto degradata (ʿInnah : degradare). Questo preciso verbo non indica tanto una violenza quanto un movimento verso il basso in senso sociale, l’abbassamento dello status di una persona. Questo degrado non è correlato al consenso o meno della donna e, pertanto, non implica necessariamente il concetto di violenza.

Perdita di status

Il testo non dice mai che Dinah fu costretta, anche se non dice nemmeno che acconsentì. Semplicemente, questo non interessa al narratore; Dinah stessa non dice una sola parola nella storia. Dal punto di vista letterario, Dinah è solo un pretesto. Perché la voce di Dinah è la voce che non c’è? Non conta nulla nella società perché è una donna? Non è precisamente così. Ciò che conta è il fatto che l’unione dei due abbia avuto luogo senza il consenso della sua famiglia al matrimonio.

Lo status di Dinah è stato abbassato da quello di una ragazza da marito (in grado di far ottenere alla famiglia il prezzo di una vergine, e di essere di massima utilità per le alleanze matrimoniali con altri gruppi di parentela), a quello di una donna di nessun pregio nella casa di un estraneo, non più utile ai suoi parenti. Non esistono, per il narratore, implicazioni psicologiche ed emotive. Non tanto perché si tratta di una donna, quanto perché come individuo non conta. I fratelli di Dinah si vendicano per l’umiliazione del loro clan, non per la violenza fatta ad una sorella.

Dinah: una seconda rilettura

Il cap. 34 di Genesi si inserisce perfettamente nella linea etnocentrica del Deuteronomista, che proibisce i matrimoni misti in nome dell’auspicata incontaminazione di Israele in mezzo ai popoli. Sulla stessa linea si muoveranno, nel dopo esilio, Esdra e Neemia. Tuttavia, in altre tradizioni bibliche troviamo matrimoni di israeliti con donne straniere: basti pensare a Giuseppe figlio di Giacobbe, a Mosè, alla stessa ava moabita del re Davide…

E invece, Dinah è muta vittima sacrificale dell’interesse di famiglia e di etnia, il primo anello di una catena di conflitti e di distruzioni, di una storia che avrebbe potuto andare diversamente. C’è molto più di una vicenda personale, qui: per questo i narratori non si preoccupano di lei. Non tanto perché è una donna, quanto perché l’individuo ha ben poco peso nei meccanismi sociali di quell’epoca, e di tante altre epoche che si sono succedute.

Il valore della persona

Tutto questo, allora, fa riflettere sul valore della persona, un valore che nella società e nella cultura più arcaiche nell’Antico Testamento ha poca rilevanza. Bisogna attendere l’età dell’esilio, il VI secolo a.C., con Geremia ed Ezechiele, perché si affermi il principio della responsabilità individuale: ognuno, e non il gruppo sociale, è responsabile delle proprie azioni, e solo di quelle. Eppure il Deuteronomio è in sintonia con la spiritualità dei due grandi profeti dell’esilio: si pensi al tema – fino ad allora inedito – della circoncisione del cuore, che corrisponde ad un processo di interiorizzazione della religione, e quindi anche di personalizzazione della fede. Ma nel caso del rapporto tra il popolo dell’Alleanza con le altre nazioni questa corrente di tradizione è tassativa: nessuna mescolanza, nessuna contaminazione. Una logica che schiaccia la persona fra i meccanismi di istanze che la superano.

Forse, allora, la lezione che ne dobbiamo trarre in questa seconda lettura è negativa: prendiamo esempio da quanto è narrato e non imitiamo né l’intransigenza dei fratelli di Dinah né la loro indifferenza per i suoi sentimenti e per la sua sorte.