
Perfettamente in tono con il libro di Giobbe, sarà il Diario di un dolore del grande scrittore C.S. Lewis a calarci nelle profondità della sofferenza umana.
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Diario di un dolore: un moderno Giobbe
Vorrei esaminare un importante contributo di C.S. Lewis sul problema della sofferenza.
Purtroppo C.S. Lewis è ancora poco conosciuto in Italia, assai meno noto del suo amico Tolkien. Poco conosciuto, al punto che molti hanno visto e apprezzato un bellissimo film del 1993, Shadowlands, uscito in Italia col titolo meno appropriato di Viaggio in Inghilterra, e non si sono neppure resi conto di chi fosse il protagonista. Ma vediamo l’antefatto.
Una esistenza tranquilla
C.S. Lewis era un pacifico professore di Oxford, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, che aveva fatto parlare di sé nel 1931 per il suo clamoroso approdo alla fede cristiana. Tolkien aveva avuto una grossa parte in questo. Da quel momento, Lewis aveva intrapreso una missione: fare della propria vita di scrittore una forma di evangelizzazione, attraverso saggi e conferenze, ma anche attraverso la pubblicazione di romanzi.
Il problema della sofferenza

Uno dei problemi di cui si era naturalmente occupato, in risposta alle obiezioni contro l’esistenza di Dio, era il problema della sofferenza. Aveva addirittura pubblicato un saggio su questo argomento, un saggio apprezzabile veramente, nel 1940, col titolo Il problema della sofferenza. In esso, Lewis espone l’idea che Dio abbia affidato il mondo al nostro libero arbitrio e quindi non possa abusare di interventi miracolosi per salvaguardare le sue creature: sarebbe assurdo che Dio avesse dettato leggi alla natura e poi continuamente le sospendesse o le sconvolgesse. Il mondo è affidato all’uomo, e puramente umana è la responsabilità di condurlo a buon fine.
Il senso della sofferenza
Il rapporto di Dio con noi, però, è improntato all’amore, ben al di là della nostra comprensione; perciò Egli vuole darci ciò di cui abbiamo veramente bisogno, e non quello che a noi farebbe superficialmente piacere. In questa ottica, la sofferenza è il megafono che Dio usa per svegliare un mondo sordo; ci toglie le illusioni e ci richiama al nostro vero essere ed al suo Amore. Il dolore non è buono in sé ma, rimesso alla volontà di Dio, lo diventa.
In questa prospettiva anche la possibilità dell’inferno trova posto: Dio rispetta la libertà delle anime perfino quando decidono di rinunciare alla gioia. L’inferno, che è distacco da Dio, è una libera scelta della persona, l’estremo atto di rispetto di Dio per l’uomo: egli non può e non vuole costringere nessuno a stare con Lui.
All’estremo opposto c’è il paradiso, la comunione con Dio nella gloria, che comporta per l’uomo anche il divenire ed essere pienamente se stesso. Qui, Lewis trova un posto anche per gli animali che hanno fatto parte delle nostre famiglie: se Cristo è il redentore dell’uomo, e l’uomo, incorporato in Lui, è salvo, l’uomo a sua volta è redentore del mondo animale che gli è stato affidato, e l’animale in quanto incorporato nella famiglia umana è salvo.
Si tratta di un libro che non nega i problemi, ma li risolve, alla luce della fede, con quello che poi si rivelerà essere un troppo facile ottimismo.
L’esperienza della vita
Ora, Lewis non era certo vissuto nella bambagia. Aveva fatto la guerra di trincea in Francia, ne aveva visto gli orrori, era stato ferito; non dimentichiamo neppure che in età di 10 anni aveva perduto la madre, rimanendo soli, lui e il fratello, con il padre che era un uomo retto ma eccentrico e incapace di un rapporto equilibrato con i figli; inoltre Lewis aveva avuto esperienze di college allucinanti, proprio nel momento in cui pativa la perdita della madre e la lontananza dall’amata Irlanda; aveva, da adulto, perso un caro amico. Tutte cose che aveva superato anche grazie alle amicizie, molte e buone, ed al ritrovamento della fede, una fede molto più matura di quella formalistica che aveva abbandonato da ragazzo.
Quando scrive Il problema della sofferenza, certamente ha avuto l’esperienza del dolore, ma è riuscito a ricomporla facilmente. La famosa affermazione secondo cui la sofferenza sarebbe «il megafono con cui Dio sveglia un mondo sordo» ha sicuramente un fondo di verità, ma sa anche tanto di astrazione. Lewis, scapolone inveterato in un mondo accademico declinato al maschile, non aveva idea di che cosa la vita gli avrebbe riservato.
Shadowlands
Tutto cambia quando nella sua vita tranquilla di celibe ultracinquantenne irrompe come un ciclone una giovane scrittrice americana che lo vuol conoscere perché, da ebrea atea comunista, si è convertita al cristianesimo proprio leggendo i libri del grande autore.
La simpatia è immediata, forse anche la messa in discussione della semplice routine esistenziale di Lewis e del fratello Warren che vive con lui; la volontà di aiutare la giovane nelle sue vicissitudini arriva al punto che lo scrittore accetta di sposarla civilmente, senza alcun tipo di rapporto che non quello amicale però, per estendere a lei la cittadinanza britannica.
Questo avviene nel 1956. La situazione esploderà poco dopo con la scoperta di una malattia mortale della giovane donna, che lo scrittore si accorgerà di amare veramente e che sposerà sacramentalmente sul letto di morte (1957). La morte in quel momento non ci fu, sembrò un miracolo che il tumore osseo regredisse; poi si riaffacciò e la condusse alla fine nel 1960. Lewis, con tutte le sue teorie sul dolore come megafono di Dio, ne rimase devastato. Si trovò a vivere nella Terra delle Ombre, Shadowlands, come egli nelle Cronache di Narnia aveva chiamato la nostra terra.
A Grief Observed: lo scandalo della fede

La sua vicenda sembra quella di Giobbe: il passare rapidamente da una situazione di serenità ad un incubo di morte. La teoria non regge più. È in questa circostanza che inizia a tenere un diario delle sue esperienze interiori, che poi pubblicherà sotto lo pseudonimo di N.W. Clerk per non scandalizzare i suoi lettori, abituati a ben altro tono nei suoi saggi e romanzi.
In effetti, in questo piccolo libro lo scrittore esterna amarezze, dubbi e disillusioni che possono sembrare non ortodosse, ed esce in espressioni al limite della blasfemia. In realtà, questo diario è una sorta di viaggio dantesco dagli abissi del dolore alla vita gloriosa in Dio, tanto è vero che termina con un verso del Paradiso di Dante. I lettori lo compresero: in molti, amici e ammiratori, gliene regalarono una copia per tirarlo su di morale, non sapendo che l’autore fosse proprio lui. Quindi, l’elaborazione del lutto che Lewis si proponeva in questo piccolo testo dimostrava di essere riuscita. Il dolore di Lewis è un dolore privato; tuttavia, come quello di Giobbe, assume valenza universale.
Quello che rimane soprattutto, dalla lettura, è l’immagine di Dio come il Grande Iconoclasta che per misericordia abbatte i castelli di carte che continuamente costruiamo, e il non senso di tante domande che, anche se non ce ne rendiamo conto, non possono avere risposta, come se chiedessimo: «Quante ore ci sono in un metro?». Le singole parole hanno un senso, la frase no.
Brani scelti
Le domande che Lewis si rivolge e le espressioni che usa sono veramente forti. Ne do qualche esempio.
illusioni
«E intanto, dov’è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue richieste come un’interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si prova) a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all’interno. Poi, il silenzio. Tanto vale andarsene. Più aspetti, più il silenzio ingigantisce».
«Abbiamo Cristo. Ma se si fosse sbagliato? Tra le Sue ultime parole ce ne sono alcune il cui significato potrebbe essere chiarissimo: aveva scoperto che l’Essere da Lui chiamato Padre era orribilmente e infinitamente diverso da quello che Lui aveva creduto. La trappola, preparata da tempo con tanta cura e tanta sottile astuzia, scattò infine, sulla croce».
«Ciò che soffoca in gola ogni preghiera e ogni speranza è il ricordo di tutte le preghiere che H. e io abbiamo offerto e di tutte le nostre false speranze. Speranze nate non solo dalle nostre illusioni, ma incoraggiate, imposte addirittura, da false diagnosi, da radiografie, da strane remissioni, da una guarigione temporanea che aveva quasi del miracoloso. Un passo dietro l’altro, siamo stati “menati per il naso”. E Lui ogni volta, mentre faceva mostra di misericordia, in realtà stava preparando il nuovo supplizio».
«Un Dio perfettamente buono non incute meno paura di un Sadico Cosmico. Più siamo convinti che Dio ci fa soffrire solo per guarirci, meno credibile ci sembra che implorare di non far male serva a qualcosa. Un uomo crudele lo si potrebbe corrompere, potrebbe stancarsi del suo infame passatempo, potrebbe avere la sua parentesi di misericordia, come un alcolizzato ha le sue parentesi di sobrietà. Ma mettiamo invece di avere a che fare con un chirurgo che ha a cuore solo il nostro bene. Più sarà buono e coscienzioso, più sarà inesorabile nel tagliare. Se cedesse alle suppliche, se interrompesse l’operazione prima della fine, tutto il dolore provato fino a quel momento sarebbe stato inutile. Ma è credibile che questi estremi di tortura siano necessari per noi?
Ebbene, la scelta è presto fatta. Le torture ci sono. Se non sono necessarie, allora o Dio non esiste o è malvagio. Se c’è un Dio buono, allora queste torture sono necessarie. Perché, se non lo fossero, nessun Essere anche solo moderatamente buono potrebbe mai infliggerle o permetterle. In un caso o nell’altro, non si scappa. Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: “Non ho paura di Dio, perché so che è buono”? Non sono mai stati da un dentista?».
A chi bussa non sarà aperto
«Forse, quando nell’anima non hai nulla se non un grido di aiuto, è proprio allora che Dio non può soccorrerti: sei come uno che annega e non può essere aiutato perché annaspa e si aggrappa alla cieca. Forse le tue stesse continue grida ti rendono sordo alla voce che speravi di sentire. Però è stato detto: “Bussate e vi sarà aperto”. Ma bussare significa dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: “A chi ha sarà dato”. Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere, neanche l’onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare distrugge temporaneamente questa capacità».
Il Grande Iconoclasta
«Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui, questa, già la conosce; ero io che non la conoscevo. E piuttosto una chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo stesso i testimoni e i giudici. Lui l’ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era di buttarlo giù».
«Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse. (Non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell’immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un’idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L’esempio supremo è l’Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono “offesi” dall’iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private».
Il castello di carte
«Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all’uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene.
Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai perfettamente “in carattere” con l’immagine che abbiamo di lui. Nella sua mano c’è sempre una carta di cui non sapevamo nulla. Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l’un l’altro a menadito. Ma anche tutto questo, forse, non è altro che un ennesimo castello di carte. E se è così, Lui me lo butterà giù di nuovo. E poi ancora, e ancora, tutte le volte che sarà necessario. A meno che, alla lunga, non mi si lasci perdere, come un caso senza speranza, a costruire palazzi di cartapesta all’Inferno, per sempre».
Domande che non sono domande
«Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un “nessuna risposta” di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda. Come a dire: “Zitto, bimbo; tu non capisci”. Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Facilissimo, direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono in un metro? Giallo è quadrato o rotondo? È probabile che buona parte dei nostri interrogativi – buona parte delle nostre grandi questioni teologiche e metafisiche – siano domande di questo genere».
«L’unione mistica da un lato. La resurrezione del corpo dall’altro. Io non so raggiungere neppure la parvenza di un’immagine, di una formula, anche solo di una sensazione, che le combini. Eppure, secondo quello che ci viene detto, la realtà lo fa. La realtà, ancora una volta iconoclastica. Il Cielo risolverà i nostri problemi, ma non, credo, mostrandoci sottili riconciliazioni fra tutte le idee che a noi apparivano contraddittorie. Quelle idee ci verranno strappate da sotto i piedi. Scopriremo che non c’era mai stato alcun problema».
Il grande esperimento
«A volte, Signore, viene la tentazione di dire che se tu ci volevi come i gigli della campagna avresti potuto darci un’organizzazione più simile alla loro. Ma proprio qui, immagino, sta il tuo grande esperimento. Anzi, no: non un esperimento, perché tu non hai bisogno di scoprire nulla. Meglio dire: la tua grande impresa. Fare un organismo che sia anche uno spirito; fare quel terribile ossimoro che è un “animale spirituale”. Prendere un povero primate, una bestia coperta di terminazioni nervose, una creatura con uno stomaco che vuole essere riempito, un animale riproduttivo che ha bisogno di un compagno, e dire: “Avanti, forza! Diventa un dio”».
Viaggio in Inghilterra (Shadowlands, 1993)

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Dalla vicenda di Lewis, e dal suo Diario di un dolore, era stato ricavato nel 1985 uno sceneggiato televisivo, trasformato in opera teatrale nel 1990, e nel 1993 divenuto un bellissimo film diretto da Richard Attenborough e interpretato da Anthony Hopkins e Debra Winger. Consiglio vivamente di vederlo; devo dire che dal momento in cui l’ho visto C.S. Lewis, che conoscevo non solo attraverso gli scritti ma anche attraverso le foto, ha per me, spontaneamente, il volto di Anthony Hopkins.
Avverto però che l’interpretazione che viene data della personalità dello scrittore (che non era imbranato come viene presentato nel film, aveva fatto una guerra ed aveva avuto alle spalle una lunga convivenza con la madre di un suo commilitone) e della sua reazione al dolore (Lewis non ha mai perso la fede) non rispecchia fedelmente la realtà. La vicenda, ovviamente, è rappresentata in sintesi e non è riprodotta esattamente nei particolari, come avverte lo stesso sceneggiatore: non è un documentario. Scene scelte del film QUI.
Il libro, Diario di un dolore, è pubblicato in Italia da Adelphi (1990). È brevissimo (solo 34 pagine) ma molto intenso e drammatico. Consigliabile per chi desidera conoscere meglio il grande scrittore e per chi vuole o deve confrontarsi con il problema della sofferenza. Giobbe continua a gridare nel grido di ogni uomo.