
Il convento della Verna, sviluppatosi nei secoli secondo un andamento non lineare, si è modellato sulla conformazione rocciosa sottostante, seguendola docilmente e dando luogo ad un complesso edilizio imponente ma al tempo stesso sobrio ed armonico. Le strutture architettoniche, incastonate nel fascino del monte, basterebbero ad incantare visitatori ed ospiti; ma in esse si sono raccolte anche opere di devozione e d’arte alcune delle quali, nel loro genere, non hanno pari al mondo. Parliamo soprattutto delle robbiane quattrocentesche, ma anche di forme di “arte minore” come il ricamo dei paramenti e la cesellatura dei reliquiari.

San Francesco icona di Cristo crocifisso

L’importanza dell’arte figurativa alla Verna si coglie meglio a partire da un semplice dato: «Il francescanesimo è nato davanti ad un’icona parlante: quella del Crocifisso di San Damiano» (Paschal Magro, Il “credo” di Francesco d’Assisi e l’arte “nuova” in Religioni e ambiente, ed. Camaldoli 1996, 161-168, p. 161). L’opera d’arte nel francescanesimo non resta un oggetto muto: l’icona diviene Logos, Verbo, sacramentum coloris che rimanda ad una realtà soprasensibile. Di più: alla Verna, con l’Impressione delle Stigmate, l’icona del Crocifisso diviene carne, e il corpo di Francesco diviene icona vivente del Crocifisso! «Il verace amore di Cristo», scrive S. Bonaventura, «aveva trasformato l’amante nella immagine stessa dell’amato» (Leggenda Maggiore XIII, 5 = FF 1228).
Il servo di Dio, secondo le parole di Francesco riportate nella Leggenda perugina (n. 104 = FF 1660), è egli stesso come una pittura, una tavola dipinta che permette di ricordare ed onorare Dio senza che l’onore e la gloria si fermino all’immagine stessa, ma, al contrario, li indirizza a Dio solo. In Francesco non vi è frattura tra anima e corpo: il corpo, duttile, riceve in sé l’impronta di ciò che l’anima sente. Con Francesco, l’uomo si riconcilia con il corpo e con l’intero universo materiale, e l’arte riconquista la terra al cielo.
La pittura “vernacolare”
Così, Francesco d’Assisi, che si può considerare il primo poeta vernacolare (autore cioè di una poesia da partecipare con il popolo) di una letteratura italiana che culminerà in Dante, è anche l’inconsapevole ispiratore di una pittura vernacolare (da condividere, cioè, con il popolo) di cui Cimabue e Giotto sono tecnicamente i creatori (P. Magro, Art. cit., p. 167 s.).
E se Assisi, con Giotto, è il luogo di nascita di questo linguaggio vernacolare visivo, la Verna è il trionfo della materia che reca l’impronta del Creatore (la foresta) e del Redentore (le Stigmate); artisticamente, questa materia vi prende la forma di quelle “sculture di luce” che sono le maioliche invetriate di Andrea della Robbia (1435-1525). Come se un raggio di luce si fosse rappreso nelle mani dell’artista ed egli l’avesse modellato.
Le sculture di luce

Le sculture invetriate rapprendano, più di ogni altra forma di arte visiva, pittura o scultura che sia, una lode che dalla materia si innalza a Dio, e rende grande l’uomo che in spirito di lode e di umiltà la modella.
Ben lo capirono i fiorentini che con questi versi tramandatici dal Vasari vollero onorare il loro concittadino Luca della Robbia (1400-1482), geniale inventore di queste “opere di terra”, di una tecnica, cioè, fino ad allora totalmente ignota, e di cui si è poi perduto il segreto:
«Terra, vivi per me cara e gradita
che alle acque e a’ ghiacci come il marmo induri,
perché quanto men cedi o ti maturi
tanto più la mia fama in terra ha vita»
(Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, III, Firenze 1971, p. 57).
Si parla di fama che continua ad aver vita sulla terra: e la speranza dell’artista, sicuramente, si è avverata. Tre generazioni si sono succedute, con la famiglia Della Robbia, nell’arte nuova basata sul segreto della lavorazione di un impasto argilloso solidificato a fuoco, smaltato e vetrificato, ed hanno reso illustre, sotto il profilo artistico, il Santuario della Verna con i loro capolavori, soprattutto le opera di Andrea della Robbia. È un’arte eterna e luminosa, di singolare qualità espressiva (Giancarlo Gentilini, The Sculture of Light. The Della Robbia Works at La Verna, FMR 67 [1994] 83-104, p. 86 ss.), che illumina con la sua purezza i luoghi di preghiera.
Le robbiane alla Verna
Non possiamo non ricordare almeno l’Annunciazione, collocata nell’edicola laterale sinistra della Chiesa Maggiore, l’imponente pala della Crocifissione nella Cappella delle Stimmate (m. 5,90 X 4,20), e l’Assunta nella Chiesina di S. Maria degli Angeli.
Questi capolavori sono stati eseguiti dal 1475 al 1495, per la committenza di cittadini fiorentini e casentinesi, con un preciso orientamento teologico improntato alla spiritualità francescana, mentre la scelta tecnica della terracotta invetriata era dovuta sia ad una scelta religiosa (di un’arte “povera” rispetto alla scultura in marmo o bronzo) sia a condizioni ambientali: l’eccessiva umidità e il rigore del luogo di montagna.
E gli affreschi?

Per questo, gli affreschi non hanno avuto vita facile alla Verna. È perduto, fra gli altri, il “San Francesco orante” che Giotto secondo gli storici antichi dipinse nella Cappella della Croce (MARIANO DA FIRENZE, Dialogo, p. 72; MIGLIO, Nuovo Dialogo, p. 125). Mentre all’interno del Dormitorio del Convento si sono conservati i tondi dei Santi dell’Osservanza di Gerino da Pistoia, discepolo del Perugino (inizio del Cinquecento), si sono deteriorate in fretta le opere più esterne, come il ciclo francescano del Corridoio delle Stimmate che fra’ Emanuele da Como (1625-1701) dipinse nel 1670: di questo pittore è rimasta, intatta, la “Madonna della Scala” affrescata sopra la scalinata che porta all’oratorio delle Stimmate.
Sulle prime opere dei Della Robbia alla Verna QUI.