
In questa mattina del Venerdì Santo seguiamo il cammino di Gesù dal Gethsemani, dove si reca la sera del Giovedì dopo aver lasciato il Cenacolo, fino alla residenza di Pilato dove sarà pronunciata contro di lui la condanna definitiva.
Il brano inizia con il canto dei salmi, anch’esso un chiaro elemento pasquale: a conclusione della cena ebraica pasquale si canta l’Hallel egiziano costituito dai salmi 114-118. Nel frattempo, però, la scena cambia.
Predizione della defezione
Non solo Giuda abbandonerà Gesù, ma tutti fuggiranno; il pastore sarà percosso e il gregge disperso (adempimento di Zc 137). L’irruento Pietro protesta la sua fedeltà indefettibile, primus inter pares con i suoi compagni di vocazione e di millanteria, e neppure crede alla parola di Gesù che lo disillude: se Giuda tradirà una volta, tre volte Pietro rinnegherà il Maestro.
Nel Gethsemani (Mt 26,30-56)
La preghiera
L’azione si sposta sul Gethsemani, Gat-shemanim ovvero Frantoio degli oli.
Matteo unisce intimamente la preghiera di Gesù a quella dei discepoli, soprattutto di Pietro, Giacomo e Giovanni, tra cui, appunto, i due figli di Zebedeo che si erano dichiarati pronti a condividere con lui il calice della passione, ma anch’essi si addormentano.
È già, questo, un primo abbandono: è la notte della Pasqua, e non si può dormire in quella notte, perché notte di veglia fu per il Signore nel liberare Israele dall’Egitto; eppure i discepoli, anche i più intimi, cedono al sonno, lasciando solo Gesù, perché dormire è interrompere la comunione con gli altri. Dormendo, lo hanno già abbandonato.
La preghiera di Gesù, invece, è vigile e insistente, ma consiste sostanzialmente nel consegnarsi con fiducia alla volontà del Padre, che filialmente Gesù chiama, lo sappiamo da Marco, Abba’, «Babbo / Papà», in un solo-a-solo con lui.
Umanamente, Gesù rifiuterebbe la passione e la morte; ma ove il vecchio Adamo si ribella in un capriccio di onnipotenza, il nuovo Adamo, Cristo, si mette totalmente nelle mani di Dio.
L’arresto
Giuda, che aveva intinto la mano nel piatto insieme al Maestro con un atteggiamento di familiarità, compie un altro gesto di intimità che si trasforma in tradimento: è il bacio di Giuda. Gesù gli risponde con un appellativo, hetairos / amico, che suona come un blando rimprovero e come un’estrema offerta di amicizia.
Più forte è il rimprovero al discepolo che reagisce troncando un orecchio al servo del sommo sacerdote: la violenza può generare solo violenza. Le Scritture vogliono, invece, docilità e mansuetudine dal Servo del Signore. Abbandonata la violenza, i discepoli non hanno altre risorse: fuggono.
Davanti a Caifa (Mt 26,57-27,10)

Il sinedrio, la massima autorità in Israele, non possedeva lo jus gladii, la potestà di condannare a morte, diritto che i romani avevano avocato a sé. Poteva occasionalmente essere eseguita qualche lapidazione, ma si trattava in tal caso di una sorta di linciaggio di cui le autorità ebraiche non si assumevano la responsabilità ufficiale.
Il caso di Gesù, però, era troppo noto per poter essere sbrigato con un linciaggio sommario: avrebbe provocato un tumulto. Da questo punto di vista, il sinedrio ha le mani legate, non può far altro che passare la grana a chi ha il potere di mettere a morte, il procuratore romano.
Il processo di fronte al sinedrio, dunque, non è un vero processo ufficiale, ma una iniziativa ufficiosa per decidere la consegna alle autorità romane. Il processo informale si svolge infatti non nella sede nel sinedrio ma nella casa del suo capo, Caifa, e di notte, quanto sarebbe stato impossibile convocarlo formalmente.
Pietro
Pietro segue ancora Gesù, ma nell’ombra, e quando viene messo allo scoperto come suo seguace si avvera la predizione del Maestro: lo rinnega tre volte, spergiurando, «prima che il gallo canti».
Sulla veridicità del particolare del gallo si sono scatenati gli attacchi di pseudo storici che hanno preteso di voler dimostrare che la narrazione evangelica è menzognera e i Vangeli sono falsi, in quanto il gallo, animale impuro, non poteva essere tenuto dentro le mura di Gerusalemme.
Affermare che il gallo fosse un animale impuro è una bestialità: galli, galline e altri volatili da cortile sono animali puri, purissimi, da allevare ed utilizzare senza problemi. Si poteva dare il caso che il gallo, razzolando come è sua abitudine, potesse estrarre dal terreno vermi morti che potevano eventualmente, col loro contatto, contaminare i sacerdoti, per cui l’allevamento dei galli era proibito in Gerusalemme con una sorta di regolamento municipale, ma ciò non impediva che i galli si tenessero in ambiente puro, e certamente non impediva che i galli selvatici entrassero nella città.
Inoltre, nel silenzio della notte, da quale distanz, da quanti chilometri a si può sentire il canto del gallo, anche senza averlo nelle immediate vicinanze?
Questo per tacitare eventuali dubbi seminati da questi suasori di agnosticismo stando sul loro terreno. Ma l’ultimo argomento è quello più forte: se affermo di «alzarmi con i polli» e di «andare a letto con le galline», vuol forse dire che dormo in un pollaio? Le metafore fanno parte a pieno titolo del nostro linguaggio e di quello biblico. Il «canto del gallo» è per chiunque la prima ora della giornata, ci sia o non ci sia, nelle vicinanze, un gallo che canta…
Il Figlio dell’uomo
Mentre Pietro lo rinnega, Gesù affronta il sinedrio senza difendersi (non risponde ai falsi testimoni) ma riconoscendo con coraggio la verità alla domanda di Caifa: «Sei tu il Messia, il Figlio di Dio?».
«Tu lo hai detto» può significare «Questo lo dici tu, non io», ma anche «Tu stesso lo riconosci». Il senso affermativo è sostenuto da quel che segue: non solo Gesù ammette di essere riconosciuto come il Messia («Figlio di Dio» era il titolo tradizionale del Re, senza implicazioni metafisiche sulla sua natura divina), ma si identifica con il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi (attributo solo divino) e siede alla destra del Padre.
Nel mondo ebraico era piuttosto la figura del Figlio dell’uomo ad essere circondata da un’aura celeste, e non quella del Figlio di Dio, che è tale solo per modo di dire; perciò, oltre alla condanna a morte che dovrà essere sancita dai romani, a Gesù vengono inflitti anche schermi e maltrattamenti.
Quando non c’è la speranza…
Se Pietro si purifica con un pianto amaro, Giuda si dispera del sangue innocente che ha venduto per 30 sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo. Il rimorso è reale, ma Giuda viene lasciato solo dai sacerdoti che, dopo averlo usato, ipocritamente rifiutano di riprendere indietro il prezzo della consegna a morte di un innocente. Rimasto solo, Giuda non ha il cuore di rivolgersi a colui che ha venduto, che sa che morirà per causa sua, non pone in lui la sua speranza, e mette fine alla sua vita. Non possiamo giudicare il suo cuore. Rimane, anche per lui, la possibilità del pentimento nell’ultimo istante…
Il processo romano (Mt 27,11-31)

Anche di fronte a Pilato Gesù tace, come il Servo sofferente di Is 53, salvo ammettere, di fronte alla domanda «Tu sei il re dei giudei?»: «Tu lo dici».
Se i capi di Israele hanno deciso la sua morte, Pilato invece esita. L’accusa lo chiama in causa, perché è di ambito politico: dichiararsi re equivaleva ad attentare alla sicurezza dell’impero e comportava la crocifissione, pena riservata agli schiavi e ai ribelli, così atroce e infame che non poteva essere inflitta per nessun motivo ad un cittadino romano. Era riservata a coloro che l’Impero considerava come terroristi che impugnavano le armi contro Roma e perciò venivano chiamati lestai, tradizionalmente tradotto con «ladroni», ma non nel senso di ladri comuni o rapinatori, bensì di «brigatisti».
Gesù o Barabba
Pilato non è convinto di dover comminare a Gesù questa pena a cui lo spingono i membri del sinedrio, ma deve mantenere equilibri politici e alleanze. Utilizza perciò la prassi di liberare per Pasqua un prigioniero, una prassi attestata dagli scritti rabbinici (Pesachim VIII,8), non sappiamo se riferibile anche ai romani.
Secondo un certo tipo di manoscritto, anche Barabba si chiama Gesù. Si tratta in tal caso di scegliere fra due Gesù, quello che vuol liberare Israele con le armi e quello che vuol liberare l’umanità con il suo amore, e la folla, persuasa dai sobillatori del sinedrio, sceglie il Gesù sbagliato. Non è Pilato che emette la condanna, in Matteo, è la folla: «Sia crocifisso!» (27,22-23), non «Crocifiggilo» come in Marco.
Particolari esclusivi di Matteo
È una vera sentenza di morte: a Pilato non resta altro che consegnare Gesù, inconsapevole esecutore di un disegno cruento che si muta in un disegno salvifico, e questa è la consegna definitiva. L’intervento della moglie di Pilato, esclusivo di Matteo, e il gesto di lavarsi le mani, esso pure solo matteano, servono a rimarcare come i pagani, testimoni insospettabili, abbiano riconosciuto l’innocenza di Gesù.
Naturalmente non tutti gli ebrei sono responsabili di questa morte, ma solo coloro che l’hanno chiesta; tuttavia, il sangue innocente attira altro sangue innocente. È significativo che il Vangelo di Matteo, iniziato con un racconto dell’infanzia in cui Erode fa strage di bambini nel tentativo non riuscito di sopprimere il Cristo neonato, si concluda con il racconto della passione in cui risuona l’annuncio di altro sangue innocente versato, quello dei figli di Gerusalemme quando la città sarà distrutta. Non siamo invece, certamente, di fronte ad una maledizione che gravi sulla successiva storia di Israele, come si voleva ritenere un tempo.
La flagellazione
La flagellazione era per legge la premessa obbligatoria alla crocifissione. I soldati però, anch’essi profeti involontari, vi aggiungono quella che per loro è una crudele beffa, la parodia di una solenne intronizzazione regale, con tanto di manto, corona, scettro, acclamazioni e genuflessioni, tutto in tono farsesco, e non sanno che invece stanno proclamando la verità della regalità del Cristo. Gesù, ormai, è consegnato, come muto agnello, «nelle mani degli uomini».