Ripercorriamo il nostro viaggio da Abele a David, prima di ripartire per nuove tappe. Riprendo quanto detto in precedenza.
Nel libro della Genesi
La sofferenza dell’ingiusto travolge anche l’innocente
Abbiamo visto fin dall’inizio come male e dolore, dolore innocente, si intreccino strettamente con la storia degli uomini. Lo abbiamo visto fin dalla storia di Abele, il giusto ucciso ingiustamente. Fa contrasto con il suo dolore innocente la catastrofe del diluvio, dovuta alla corruzione dell’umanità. Una corruzione che però travolge nelle sue conseguenze anche i bambini, anche gli animali. Il dolore di Caino, e degli uomini del diluvio, è conseguenza delle loro azioni; ma coinvolge anche gli innocenti nei suoi tragici esiti.
La sofferenza come prova: Abramo
Quella di Abramo, invece, è una sofferenza accettata, che raffina la sua fede, purificandola da ogni residuo di attaccamento egoistico. È la categoria della prova, la prima interpretazione della sofferenza del giusto che regga ad un esame severo come quello richiesto dalla realtà dei fatti.
La sofferenza come via di salvezza: Giuseppe
All’altro capo della saga dei patriarchi, la sofferenza di Giuseppe, la sofferenza di uno, è funzionale alla salvezza dei molti. Noi parleremmo di Provvidenza: Dio si serve invisibilmente e tacitamente dei tristi eventi della vita di Giuseppe e della stessa volontà criminosa dei fratelli maggiori per far andare la storia nella direzione della salvezza. È il Dio dietro le quinte, e la sofferenza diviene una sua via di salvezza.
È straordinario come già nel primo libro della Bibbia si possano riscontrare due teorie così avanzate della sofferenza del giusto, applicabile a taluni casi. La sofferenza è un male, ma Dio la piega al bene.
L’Esodo: la salvezza degli uni costa la sofferenza degli altri
Altra sfaccettatura: è la sofferenza di Mosè nel vedere i suoi sogni infranti e la sua identità distrutta a renderlo capace di udire la voce di Dio. Così pure, anche le cosiddette piaghe d’Egitto dovrebbero avere un valore pedagogico, predisponendo il faraone e il suo popolo ad aprirsi alla volontà di Dio; anche se questo non accadrà. Anche il cammino nel deserto, per Israele, sarà irto di prove e di cadute: Dio risponde col suo aiuto, ma anche con il suo castigo. Il suo scopo è sempre un bene superiore e non l’annientamento. In ogni caso, Dio è presente, anche se dietro le quinte, nella vita dell’uomo e dei popoli. Vede e in qualche modo risponde.
Rimane il fatto che la salvezza degli uni costa la sofferenza degli altri, anche degli innocenti. Comprendere la mentalità corporativa degli antichi (per cui l’individuo ha un senso solo nella comunità) ci aiuta, ma non del tutto. Dio non preserva gli innocenti dalla sofferenza.
Giosuè: la sofferenza inflitta
Con Giosuè, la violenza subita diviene violenza inflitta: Israele combatte gli altri popoli. Pur considerando il valore anche simbolico delle leggi di guerra e della legge dello sterminio, resta il fatto che Israele si può vantare di aver combattuto per assicurarsi la terra promessa distruggendo i nemici.
Giudici: la sofferenza autoprodotta
Con il libro dei Giudici, poi, arriviamo a casi di sofferenza autoprodotta. Autoprodotta non per masochismo e neppure per scelta di offerta per gli altri, tutt’altro; dico autoprodotta perché conseguenza di proprie azioni sconsiderate. Con Deborah, Baraq e Gedeone siamo davanti a normali azioni di guerra, ma con Giaele, responsabile di una atrocità a danno di una persona accolta come ospite, e con Abimelek che uccide i fratellastri onde non esserne impedito nell’uso del potere, siamo totalmente fuori del seminato anche in tempo di guerra. Nel caso di Abimelek, la cosa si ritorce contro di lui. Ma il peggio deve ancora venire.
Sembra di stare assistendo ad una discesa agli inferi, sempre più in basso, fino a toccare il fondo: attraverso le vicende di Iefte e di Sansone, il fondo si tocca con la storia della donna di Betlemme, concubina di un levita, il cui corpo smembrato sta forse a significare che niente di umano è più rimasto nella storia. E Dio non interviene…
La sofferenza che dilaga in una famiglia e in una società che permettono questi crimini si può ben dire causata da se stessi. Siamo perciò discesi, da una concezione almeno in parte funzionale della sofferenza che Dio permette (quella di Abramo, che vale alla sua crescita nella fede; quella di Giuseppe, che serve alla salvezza dell’intera famiglia), ad un tipo di sofferenza causata dalla sconsideratezza o dal peccato degli uomini. Sembra che ci sia stato, nel corso della storia di Israele, un processo di degenerazione, come vi è stato nella storia delle origini. Bisognerà pure che qualcuno ne tiri fuori il popolo di Dio.
Mi chiedevo, in precedenza: questo qualcuno sarà il re Davide? O dovremo aspettare molto di più per vedere segnali di rinascita? Adesso posso dare la risposta: anche nella storia di David troviamo le storture che caratterizzano la storia dell’umanità. Con una differenza: David crede nel Dio della misericordia…
La vicenda di David
La storia di David si innesta sullo sfondo cupo della storia umana, inabissata in un mare di iniquità. Le guide del popolo sono corrotte; le persone cui Dio in qualche modo si manifesta, all’inizio del libro di Samuele, sono una donna sterile, un vecchio invalido e un bambino, e Dio sembra ritrarsi: “la parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti” (1 Sm 3,1). Il vecchio sacerdote accetta umilmente la parola di Dio ma è fragile, troppo fragile per riuscire a rettificare gli incorreggibili figli. La sconfitta di Israele appare dovuta alla corruzione dei capi. Ci sono conseguenze da pagare per il cattivo comportamento di alcuni. Bene, si pensi anche al giorni d’oggi quando la sconsideratezza di un leader (e dico poco) può portare alla catastrofe umanitaria non solo il proprio e l’altrui popolo, ma addirittura tutto il pianeta…
Sofferenza autoindotta: Saul
Le cose potrebbero cambiare con la crescita del piccolo Samuele, che diviene un grande profeta. Ma in realtà non sarà così: il primo re da lui unto, Saul, viene meno al suo ruolo. Invece di contrastare i nemici di Israele, ingaggia una guerra personale contro un supposto nemico.
Abbiamo già trovato casi in cui il dolore è diretta conseguenza delle scelte dissennate della persona: un caso lampante è Jefte, ma anche Sansone non scherza nel rovinarsi la vita. Nel caso di Saul, ci troviamo di fronte ad una malattia morale e psichica che tormenta la persona con tanta sofferenza – in questo caso una sofferenza meritata, sembra dire il narratore. Saul infatti si è allontanato, nel cuore, da Dio, e non può che pagarne le conseguenze. Oggi si direbbe che inizia a soffrire di bipolarismo, perché passa da momenti di umor nero a momenti di esaltazione.
Comunque, il testo ci presenta una ulteriore possibilità di sofferenza, quella causata esclusivamente da fattori interni; perché Saul fino a questo momento non ha subito sconfitte né è stato afflitto da sofferenze familiari. Tutto si gioca nella sua interiorità, ma in un modo che lo rende inabile a governare. Sarà la sua stessa mania di persecuzione a fare di David un fuggitivo e quindi a renderlo un’alternativa appetibile da gran parte del popolo. Se Saul avesse tranquillamente accettato la presenza del giovane, non ne avrebbe fatto un martire e non lo avrebbe posto al centro dell’attenzione. La cattiva coscienza, evidentemente, causa alle persone più danni di quanti non ne causino i pericoli esterni. Combattere contro i fantasmi che uno si è creato comporta un incredibile quanto inutile spreco di risorse e un inevitabile fallimento.
La Provvidenza divina scrive comunque diritto sulle righe storte degli uomini e fa sì che, proprio per placare la depressione di Saul, David, un semplice pastore dimenticato in campagna persino dai suoi, venga introdotto a corte come musicista, e poi, perseguitato accanitamente dal re, debba fuggire facendosi seguaci e finendo per soppiantare il re stesso.
Una morte che non salva
Nessuno di noi è solo luce o solo ombra. La tragica narrazione della fine di Saul mostra quanto Saul, pur nel suo declino morale, non sia riducibile ad un grezzo personaggio negativo la cui fine si limiti a liberare i giusti dalla persecuzione. Saul continua sino in fondo ad oscillare tra unzione divina e follia, spietatezza e maestosità.
Se non altro, muore con coraggio. A conclusione del racconto della sconfitta, però, il narratore riferisce che gli Israeliti abitanti delle zone vicine al luogo della battaglia «abbandonarono le loro città e fuggirono, e i Filistei vennero e vi si stabilirono» (31,7). La morte di Saul è un fallimento: non è un sacrificio che valga a riscattare il suo popolo. Questo sarà poi il ruolo di David.
L’uomo della compassione
David non è affatto esente da errori o peccati, come dimostrerà l’intera sua vicenda. La sua storia però è profondamente segnata dalla misericordia: ha sperimentato la misericordia del Signore e quella degli uomini, primo fra tutti Gionata, per cui è capace di provare compassione per il rivale indifeso, per il nemico insulso. Non è certo un caso che la parola chesed, traducibile con benevolenza, amore, misericordia, ricorra con frequenza proprio nella storia di Davide. Risuona poi ben 127 volte nel Salterio su 245 ricorrenze totali che il vocabolo presenta nell’Antico Testamento: una percentuale enorme. L’attribuzione tradizionale a David di molti salmi, anche se non sostenibile dal punto di vista letterario, trova una sorta di conferma concettuale (in quanto modello di riferimento) nella frequenza in essi del termine che esprime la misericordia. La sofferenza, in qualche modo, purifica David dal suo personale orgoglio e ne fa un uomo che ha sperimentato il patire, quindi che è capace di comprendere il patire degli altri.
David prova compassione per la morte di amici e nemici. In un contesto in cui gli eserciti si scontrano, gli uomini cadono e i giochi politici imperano, David rimane sensibile alla sofferenza altrui. Non cerca il proprio vantaggio ma la giustizia. Non si limita ad intraprendere la via più facile (che spesso comporta compromessi e corruzione) ma rafforza la sua fiducia nei tempi di Dio, continuando a provare compassione per gli uomini. Il loro dolore è il suo dolore.
Cade la persona sbagliata – ma il colpevole è punito
Tuttavia, David commetterà gravissimi errori dalle ferali conseguenze per sé e per gli altri. Nell’infame vicenda di Betsabea, Uria non merita la morte, e tuttavia è lui a morire, non il re peccatore. Trionfa l’ingiustizia, il diritto viene calpestato. È David a sopravvivere, lui che non lo meritava: con la spada degli ammoniti – così lo rimprovererà il profeta Natan – aveva ucciso il suo fedele seguace, solo per nascondere la propria colpa, una colpa che nella legge di Mosè comporta la morte. Dopo l’adulterio, l’omicidio; gli uomini non vedono il duplice crimine; ma ciò che David ha fatto è male agli occhi di Dio.
Muore l’innocente, e il colpevole è salvo. Solo apparentemente, però; perché un carico di morte perseguiterà da allora David nella propria famiglia. Prima soccomberà l’innocente figlio della colpa, poi i figli grandi, chi colpevole di incesto, chi di omicidio, chi di ribellione.
David, se non altro, è capace di pentirsi e di assumersi la propria responsabilità. Il suo pentimento è sincero. Ma non basta il pentimento a cancellare il male fatto, che ricadrà sul suo capo. Ci saranno conseguenze. La spada non si allontanerà mai dalla sua casa. Il dramma di David si svilupperà, infatti, soprattutto all’ interno alla sua famiglia.
Due tipi di sofferenza dovuta all’uomo
Allora, c’è la sofferenza ingiusta dell’innocente, del ligio e fedelissimo Uria, frutto delle libere scelte di David. Poi, c’è la sofferenza «meritata» dal peccatore David, ma frutto anche questa di libere scelte dei suoi disgraziati figli; tuttavia, si tratta di una sofferenza che ricade anche sul popolo incolpevole mediante una guerra civile.
Una prima impressione ci direbbe che la sofferenza coglie tutti allo stesso modo, colpevoli e innocenti: c’è giustizia? Giobbe sosterrebbe di no. Una seconda valutazione, più attenta, ci rivela che la causa sta – almeno in questo caso – nelle libere scelte degli uomini. Sono loro, e non Dio, a scegliere la guerra, la ribellione, il delitto. Dio non fa che evidenziare i loro comportamenti con le loro nefaste conseguenze.
Allora la sofferenza è punizione del peccato? Nel caso di David sembrerebbe di sì. Ma in realtà è frutto delle libere scelte dell’uomo: se Amnon commette stupro e incesto non è perché è istigato da Dio, né le infami scelte di Assalonne sono determinate dalla volontà divina. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un libero arbitrio che perverte le leggi del bene e causa effetti nefandi sulla vita dei colpevoli, ma anche degli innocenti.
David impara qualcosa anche da questi luttuosi eventi. Torna ad affidarsi a Dio, come aveva fatto nella sua giovinezza. Lascia l’arca di Dio a Gerusalemme, perché non vuole usarla per i propri scopi: non gli appartiene, ma rappresenta la dimora di Dio in mezzo al suo popolo. Non oppone resistenza. Non si ribella davanti a quello che deve patire. Si affida a Dio, e cerca di vedere nelle parole e nei gesti degli altri un segno della sua volontà.
Il censimento e la responsabilità di David
Ma non è finita: con l’episodio del censimento si arriva al pieno paradosso. Stando al testo, al termine della vita di David Dio lo istiga a fare un censimento, poi lo punisce per avere fatto il censimento; in realtà punisce il popolo, che in questo non ha fatto niente di male… Ora, censire il popolo vuol dire calcolare le proprie forze militari, quindi quantificare la forza su cui si può contare. Un re di Israele non lo può fare, perché deve fare affidamento solo sul Signore. Dunque, quello che David chiede è male agli occhi del suo Dio che sempre gli ha dato salvezza e vittoria, è sfiducia. È un regresso. Davvero David sembra ben lontano dall’essere quel ragazzo che corse incontro al gigante, come incontro all’orso e al leone, armato solo della fionda e della fede. Vuole le sue sicurezze umane.
Tuttavia, qui Dio vuol punire Israele (di cosa?), perciò istiga David a fare il censimento del popolo, in modo da poterlo punire per ciò che ha fatto, con una punizione che ricade sul popolo stesso: carestia, guerra o peste. Quindi, il censimento sarebbe una specie di scusa ufficiale per procedere ad un castigo dovuto all’ira di Dio.
In realtà siamo semplicemente di fronte ad un tipo di linguaggio, e non davanti ad una specie di schizofrenia che fa chiedere una cosa e il suo contrario. Il fatto assodato è la responsabilità morale di David. Dio ha permesso l’istigazione e l’ha resa una prova da cui David avrebbe potuto uscire migliore. Invece David cade, ma sappiano già che c’è un «dietro le quinte»: qualcosa di buono nascerà anche da questo. Noi non lo sappiamo, ma Dio lo sa. Niente gli sfugge.
Le conseguenze del peccato
Fra la tragedia personale di David e la tragedia nazionale del suo popolo, in quarant’anni di regno, qualcosa va bene ma il resto va molto va male, con grandi disgrazie personali e comunitarie. La storia della salvezza procede sviluppandosi nei drammi della vita, con tante ombre in mezzo a quelle che sembrano poche luci.
Ma davvero siamo ancora davanti alla concezione della sofferenza come castigo del peccato? E non solo del colpevole (David), ma anche degli innocenti? La sofferenza come punizione, e per di più come punizione della colpa di uno che però ricade su tutto il popolo… tradimenti, vendette, atrocità…
Il fatto è che il peccato ha sempre delle conseguenze. Non accade e finisce lì, ma accade e ha inevitabilmente degli effetti negativi pesanti, sulla persona e sulla società. Ha una potenzialità distruttiva di cui a volte ci si rende ben conto. E Dio non farebbe il nostro bene se lo passasse sotto silenzio. Anzi, non abbandona mai. La sua Parola e la sua azione spesso sono assai dure. È quello che ho chiamato il rovescio del ricamo, un intrigo pazzesco di fili. Eppure, alla fine le righe storte degli uomini mostrano una Parola limpida e retta scritta su di esse. David riconosce di avere sbagliato. Il pentimento è la chiave della ripartenza. Il luogo dove l’angelo ritira la sua mano sarà il luogo dove sorgerà il tempio e Israele avrà il perdono dei suoi peccati.
Ricapitolando
Prima di passare alla storia dei Re, vediamo allora quali concezioni della sofferenza del giusto abbiamo toccato attraversando nel nostro viaggio i vari libri biblici.
Nel libro della Genesi, abbiamo visto come la violenza dell’ingiusto possa colpire l’innocente, ma anche come la sofferenza del giusto possa rappresentare una prova che fa crescere o addirittura una via di salvezza per i colpevoli: esemplari le vicende di Abramo e di Giuseppe.
Nel ciclo dell’Esodo. Abbiamo riconosciuto come la sofferenza possa avere un valore di purificazione e di richiamo a Dio, ma anche come la salvezza degli uni possa costare la sofferenza degli altri. Nei libri della conquista, Giosuè e Giudici, addirittura è Israele che infligge sofferenza ai nemici, ma sono anche certe persone che provocano sofferenza a se stesse con i loro modi di fare autodistruttivi. Saul, poi, primeggerà nei comportamenti autolesionistici.
Nelle luci e nelle ombre della vita di David, è evidente come in una persona capace di tanta sensibilità e misericordia si trovino anche peccati dalle conseguenze funeste per sé e per gli altri.
Prova? Srumento di purificazione? Via di salvezza? Castigo del peccato? Autolesionismo? Conseguenza del peccato altrui? Abbiamo già in queste antiche narrazioni un ventaglio di possibilità che rappresentano una risposta molto frammentaria e parziale al problema della sofferenza dell’innocente. Dobbiamo proseguire il nostro viaggio alla ricerca della risposta più completa – ammesso che esista…