
La cronaca di questi giorni è cronaca di violenza, ancora tristemente piena di notizie e risonanze sulla vicenda della giovanissima Giulia massacrata dal suo ex, e sui cosiddetti femminicidi.
Ora si esige di rimediare prevenendo simili crimini. Come? Assegnando alla scuola il compito di educare all’affettività, con una manovra che sa tanto di alibi e di pretesto quando si pensa alla mentalità narcisistica e violenta che viene tranquillamente indotta e/o rinforzata nei giovani dai media fuori controllo (o meglio, sotto controllo pubblico) e dalle spinte verso il consumo “qui e subito” e verso la ricerca della soddisfazione personale senza preoccupazioni per il bene altrui. Il ragazzo registra un insuccesso scolastico? Addosso al professore, stia attento a quello che fa, altrimenti… Il bambino non va bene a matematica, o in italiano? Dagli all’untore, la colpa è della maestra. Elementi turbolenti impediscono a tutti lo svolgimento sereno delle attività scolastiche? È l’insegnante che non sa gestire la classe…
Ma basta con le digressioni scolastiche. Non si può negare che abbiamo a che fare con una mentalità diffusa violenta, che solo in parte, secondo me, è legata alla convinzione che le donne siano eterne subordinate prive del diritto ad una volontà propria. Dico solo in parte, perché a me sembra che la violenza sia indiscriminata, rivolta contro chiunque contraddica ai dettati dei desideri personali: è la tentazione di Caino, in fondo. La tentazione del violento contro il debole.
Tuttavia, una parola specifica dobbiamo pur dirla sulla mentalità maschilista che sicuramente ancora sopravvive: una mentalità che si scontra frontalmente con quella biblica. Non ci credete? Abbiate pazienza e seguitemi.
Maschio e femmina li creò e li chiamò ’adam… (Genesi 5,2)

I due racconti biblici della creazione disegnano un quadro dell’umanità in cui le due polarizzazioni, maschio-femmina, sono perfettamente pari. Non se ne distingue la dignità, ma solo la funzione.
Questo è reso più facile in ebraico, lingua che differenzia l’adam = umanità (nome collettivo, come anthropos in greco e homo in latino) dall’ish = maschio della specie umana (come aner–andros in greco e vir in latino). L’italiano, che presenta un vocabolario tanto ricco, in questo caso si dimostra lessicalmente povero, perché alla parola uomo assegna sia il significato inclusivo di essere umano che quello restrittivo di uomo maschio. L’ebraico può permettersi invece i suoi giochi di parole, perché, mentre ’adam è l’essere umano, l’umanità, ’ish è l’uomo maschio, ’isshah è l’uomo femmina: i due sessi condividono lo stesso termine (anche se l’etimologia potrebbe essere diversa), e sono entrambi ‘adam, a pari merito. La condivisione è totale.
Quando il Signore Iddio guarda con compassione l’adam (non l’uomo maschio, ma l’essere umano) perché è solo, e annuncia l’intenzione di fargli un aiuto simile a lui, in realtà non dice così. Dice Un aiuto di fronte a lui, cioè qualcuno che gli sia pari, che lo guardi in faccia. Vorreste meglio esprimere la pari dignità? È allora, quando l’adam (che è l’umanità senza distinzioni) si specifica in maschio e femmina, che l’ish/uomo maschio si riconosce e si dichiara tale specchiandosi paritariamente nell’isshah/uomo femmina. E siamo in una società antica, almeno mille anni prima dell’era cristiana!
Cronaca di violenza. Una prassi di sottomissione

Ma voi obietterete: Eppure la società biblica era una società patriarcale, e la condizione di sottomissione della donna lo dimostra!
Ammesso che voi lo diciate, sì, lo riconosco, la prassi storica è quella della sottomissione femminile. L’interessante però è che questa condizione è vista dalla Bibbia non come l’originaria volontà divina, ma come una conseguenza del peccato umano: Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà (Genesi 3,16). La parola di Dio alla donna dopo il peccato non è una imprecazione, un augurio di male, ma una constatazione dolorosa delle conseguenze rovinose del peccato di arroganza.
E così troviamo nelle pagine della Bibbia tante donne sottomesse ai mariti, ma mica poi tanto se si pensa che sì, alla vita pubblica pensavano gli uomini, ma poi chi comandava in casa? Le mogli dei patriarchi non appaiono così tanto timide e soggiogate, hanno una volontà di ferro e si sanno imporre.
E così pure le profetesse, come Deborah, giudice del suo popolo e condottiera di schiere, una madre in Israele! Come Giaele, che con un picchetto da tenda trafigge e inchioda a terra la tempia del nemico stremato! Come pensate si sia sentito, da quel giorno in poi, Eber il kenita, il legittimo marito di tanta sposa? In qual modo andasse la vita domestica me lo fa supporre anche un versetto del Siracide (25,16) in cui il saggio esce nel grido di dolore dei mariti oppressi: Preferirei vivere insieme a un leone e a un drago che vivere insieme a una moglie cattiva!
Cronaca di violenza. Una prassi di violenze fisiche

Purtroppo, però, c’è anche tutto un mondo di violenza che non si può negare. È una violenza fisica che si rovescia su tutti, e indubbiamente da questo punto di vista la donna è un elemento fragile.
Nel matrimonio gli sposi non avevano tanta possibilità di scelta, e la promessa sposa meno di tutti. La moglie veniva inizialmente considerata come un bene appartenente al marito, tanto che il Decalogo della versione di Esodo 20,17 la include tra gli altri beni, la casa, l’asino, il bue… salvo distinguerla dalle proprietà di beni materiali nella più recente versione, quella di Deuteronomio 5, 21. Questa concezione arcaica non impediva che nel rapporto di coppia vigesse il rispetto. Ma non sempre.
Il dramma di essere donna. Rapimento con eccidio (Genesi 33)

Una cronaca di violenza riguarda Dina, unica figlia femmina menzionata del patriarca Giacobbe. La fanciulla viene rapita da Sichem, principe della città omonima. Sembra essere un rapimento per amore il suo, perché lui ne è innamorato e la vuole sposare.
Il rapimento rituale è un’usanza diffusa presso vari popoli, per esempio quando si era di etnie diverse e l’unico modo per violare il tabù era l’uso della forza, ed in seguito quando gli amici dello sposo fingevano di rapire la sposa e l’innamorato doveva dimostrare il proprio valore salvandola (anzi, fingendo di salvarla). Sichem chiede Dina, regolarmente, in moglie. Ma i fratelli di Dina prendono molto male la cosa e con l’inganno uccidono il pretendente e tutta la sua genìa. Una vendetta spropositata e abominevole, ma… un momento, qualcuno ha chiesto cosa pensava la giovane, se voleva o meno essere rapita, se voleva o meno sposare il suo rapitore? Intorno a lei si muove tutta la storia, ma qualcuno ha domandato il suo parere?
Il dramma di essere donna. Un abuso dopo l’altro (Giudici 19-21)

Ma questo è niente rispetto ad un caso di abuso narrato nel libro dei Giudici, e dovremo anche cercare di capire perché viene narrato: perché questa vicenda, in effetti, è un horror.
Atto primo: una notte di abusi
Un uomo della tribù di Levi si trova a passare la notte in un villaggio della tribù di Beniamino, accompagnato dalla propria concubina (moglie secondaria). Gli abitanti del posto, invece di rispettare lo straniero, vogliono farselo consegnare per abusare di lui. In una replica dell’episodio dei due angeli nella città di Sodoma (Genesi 19), il padrone di casa si offre di dar loro la propria figlia pur di preservare la sacralità dell’ospite.
Come a Sodoma, gli abitanti rifiutano: sono gli stranieri maschi quelli che essi vogliono. Ma qui nessun angelo scende per difendere la vita degli stranieri. Il levita supera le obiezioni: per salvare se stesso scaraventa in loro mano la propria moglie, e quelli si buttano sulla donna lì per lì disponibile distogliendo l’attenzione da lui. Ne abusano per tutta la notte e solo al mattino la lasciano andare. La donna si trascina fino alla casa e si abbatte sulla soglia.
Atto secondo: divenire un oggetto
Al mattino il marito sembra addirittura averla dimenticata perché sta per riprendere il suo viaggio, ma vedendola là immobile sulla soglia tutto quello che ha da dirle è: Alzati, andiamo! Ella non risponde, è morta.
Non ci sono parole davanti a tanto cinismo. Il peggio della vicenda è già avvenuto, ma quel che segue non è meno agghiacciante. Per avere vendetta, l’uomo fa appello a tutte le tribù di Israele contro la città di Gabaa e la tribù di Beniamino dividendo in dodici pezzi il corpo della moglie e spedendone uno a ciascuna a macabra testimonianza dell’accaduto.
Atto terzo. Non ci sono spose? Rapiamole!
In conseguenza della guerra fratricida che si scatena, la tribù di Beniamino viene quasi estinta, e se può sopravvivere all’eccidio è perché alla fine le viene consentito di rapire le fanciulle di Silo affinché i pochi superstiti possano avere figli da esse. Ancora una volta, nessuno tiene conto della volontà delle donne. La donna, nella persona della moglie del levita, è ridotta ad oggetto, anche in senso fisico, visto che si strumentalizza persino il suo corpo per una vistosa mossa propagandistica.
A dir la verità, il sesso femminile non ha molta importanza, dato che gli abitanti del villaggio avevano, inizialmente, mirato all’uomo. L’uomo era appetibile perché, in quanto straniero, era portatore di una fragilità che lo rendeva indifeso, manipolabile. Non ha importanza il sesso, basta che si tratti di una persona da poter “cosificare”, ridurre ad oggetto. Soltanto, l’uomo è stato più lesto di mano e di testa ed ha scaricato la violenza altrui su un elemento più debole e accessibile, la moglie…
Cronaca di violenza: “Ognuno faceva quello che voleva…”
Come dovremmo concludere questo racconto? Parola di Dio? Sì, la Parola è di Dio, ma l’atrocità è dell’uomo. E perché ci viene raccontato tutto questo? Perché, ripete il narratore come in una sorta di ritornello, a quel tempo non c’era un re in Israele, e ognuno faceva quel che era giusto ai suoi occhi.
In realtà, l’episodio fa parte di una serie di argomentazioni filo monarchiche: benvenuta la monarchia, affinché cessi l’anarchia. Ma se riusciamo ad astrarlo dalla forma politica che assunse conformemente all’epoca, ne traiamo un insegnamento che va al di là di un determinato tempo. Nessuno può essere arbitro esclusivo del proprio desiderio, la società deve essere protetta dal capriccio dei singoli. Se le famiglie e i media crescono una generazione fuori controllo, che libito fé licito in sua legge (tanto per tirare in ballo anche Dante; Inf. V,56: che dichiarò lecito tutto quel che piaceva), è alla scuola che si deve chiedere di rimediare o, meglio, prevenire? È come mettere un cerottino sulla pelle di un lebbroso.