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Opera propria, Arnaud 25, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2439311
Verso la fine dell’anno liturgico, le letture che la Chiesa propone nella liturgia ci guidano a riflettere sulla sorte dell’uomo. È quello che la tradizione chiama i Novissimi (in latino, le cose ultime): morte, giudizio, inferno, paradiso. Ovvero: che cosa accade all’uomo, alla fine? Anche a seguito di perplessità che mi sono state espresse, vorrei offrire alcune semplici considerazioni sulla vita eterna.
Quello che io dirò si muove sulla linea della fede cristiana. Non metto quindi in dubbio che vi sia una vita ultraterrena. Il problema è: di che tipo?
La fede nella vita eterna
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Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=151799
Le prime espressioni di fede aperte e innegabili nella vita eterna dell’uomo sono tardive nella Bibbia. Per molti secoli, Israele ha creduto in Dio ed ha cercato di obbedire al suo volere senza pensare ad una ricompensa eterna. È questo, appunto, il grande problema di Giobbe: perché il giusto soffre? Infatti, non ammettendo l’esistenza di una vita vera, piena, dopo la morte, la sconfitta dell’innocente in questa vita terrena sarebbe una grande ingiustizia.
I conti iniziano a tornare solo quando si afferma la fede nella resurrezione della carne (in ambiente palestinese: la prima attestazione esplicita nel cap. 12 del libro di Daniele, II secolo a.C.) e nell’immortalità dell’anima (in ambiente greco: libro della Sapienza, circa 50 a.C.). Allora, si comprende che i giusti che hanno sofferto in questa vita gioiranno nella vita eterna, mentre gli empi, anche se se la sono goduta, avranno tormenti. Al tempo di Gesù, questo era già chiaro, almeno per quelli che ammettevano le Scritture per intero, come i farisei; mentre coloro che – come i sadducei – ritenevano Scrittura Sacra solo il Pentateuco non accettavano i progressi della rivelazione. Gesù e la Chiesa apostolica affermano chiaramente la fede nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione finale. Ma quale sarà lo stato di risorto? E che cos’è il Paradiso?
La resurrezione della carne
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Schizzo del murale nella Cattedrale di Vladimir a Kiev.
Di Shakko – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=110686707
Professiamo, nel Credo, la resurrezione della carne e la vita eterna. Accettare questa fede può essere relativamente facile; molto difficile è comprenderne il pieno significato.
La resurrezione è corporale; non pensiamo, quindi, ad una resurrezione solo spirituale, che non sarebbe altro che la vita dell’anima separata dal corpo. Questa non è la fede biblica: il corpo non è un optional per la Sacra Scrittura, è una componente imprescindibile dell’essere umano. La vita eterna, afferma la Scrittura, sarà vissuta nella corporeità.
Corrisponde ad un grave errore, perciò, la tendenza odierna (un po’ New Age) a dire che i defunti sono divenuti angeli. No: sono uomini che hanno perduto la vita corporale ma per riassumere l’identità corporea l’ultimo giorno. Sono uomini, non angeli. Né si sono trasformati in stelline, o in altre figure poetiche che vengono immaginate a scopo consolatorio. Sono esseri umani che attendono di riprendere la loro identità corporea.
E il corpo risorto, anche se trasfigurato e glorificato, come quello di Gesù, è pur sempre un corpo umano, parte dell’identità della persona: ricordiamo che Gesù, sul suo corpo di Risorto, porta ancora la stigmate della Passione.
Non abbiamo la capacità di immaginarlo, se non attraverso un paragone che fa San Paolo. L’apostolo suda sette camicie per convincere i Corinzi della realtà della resurrezione della carne; perché questi, essendo greci, tendevano a concentrare tutta l’attenzione sull’anima, disprezzando la corporeità come superflua e dannosa. Nel pensiero greco, l’uomo è la sua anima, e il corpo è solo un rivestimento da cui è inevitabile, anzi desiderabile liberarsi. Per la fede biblica, al contrario, corpo e anima sono un tutt’uno inscindibile. A un certo punto, per spiegarsi, Paolo dice:
1 Corinzi 15 35 Ma qualcuno dirà: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?». 36 Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; 37 e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. 38 E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo…
42 Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; 43 si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza.
Il seme di grano
L’esempio che fa Paolo è quello del seme di grano: morendo nella terra, acquista una pienezza di vita prima inimmaginabile. Il germe sboccia in tutta la sua potenzialità. Chi, vedendo un granello di senape, potrebbe immaginare che diventerà un grande arbusto? O chi, vedendo una ghianda, può pensare che divenga un’enorme quercia? La stessa cosa è per il corpo risorto: l’identità è la stessa, ma portata all’espressione massima della sua piena potenzialità…
La vita eterna
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Ora, come possiamo rappresentarci il Paradiso in quanto dimora dei risorti? Le difficoltà sono le stesse, se non maggiori. Il fatto è che siamo condizionati dalla visione dantesca dell’Aldilà, una visione che Dante per necessità didattiche ha dovuto inquadrare nelle categorie dello spazio e del tempo.
Dante scolpisce vigorosamente il suo Inferno nelle viscere della terra, dipinge delicatamente il suo Purgatorio con le tinte tenui della natura australe, musica il Paradiso con il canto dei beati e degli angeli. Ben consapevole che sta parlando di una dimensione che esula dallo spazio e dal tempo, ci presenta però dannati e anime sante collocati in luoghi precisi – ed anche, nel Purgatorio, per tempi precisi. C’è un baratro infernale che accoglie i peccatori non pentiti, c’è una montagna santa nel mare australe in cui transitano le anime desiderose di purificazione. Al di là dei nove cieli che Dante conosceva, c’è una Rosa in cui i santi siedono beandosi della contemplazione di Dio.
Ai suoi tempi, Dante poteva avere nozione dell’esistenza di forse duecento milioni di abitanti in tutta la terra; una bazzecola, in confronto a quello che sappiamo noi, abituati a contarci a miliardi almeno dalla metà dell’Ottocento. La terra che Dante conosceva era molto piccola e poco popolata, e il giorno del giudizio poteva anche essere imminente. C’era spazio per tutti. Ma studi recenti parlano di 115 miliardi di uomini che sono vissuti sulla terra dagli inizi della vita umana; e miliardi e miliardi continuano a viverci adesso. Dov’è lo spazio per accoglierli?
Non è questione di spazio
Risposta: lo spazio non c’è. Nel senso che non è questione di spazio, appunto. Pensando alla vita eterna, dobbiamo ritenere che sarà avulsa dalle categorie dello spazio come del tempo. Non c’è più un passato, presente o futuro, ma solo un eterno presente. Non c’è più un qui o un là, un luogo geografico, ma solo un’esistenza in Dio.
Certo, sembra contraddittorio. Da una parte diciamo che l’identità corporea è imprescindibile per i risorti; dall’altra, che non si troveranno più in uno spazio. Qui si parla di spazio materiale, però; Dio che è Infinito, il Luogo dei luoghi come lo chiama l’ebraismo (Hammaqom, nel senso che contiene tutto e non è contenuto da alcunché), ha in Sé la dimora per tutti. Il Paradiso è essere con Lui, per Lui, in Lui.
Dante, che sa bene tutto questo, che ha ben chiaro come nell’Aldilà le leggi naturali non vigano più, è costretto ad usare parole ed immagini concrete per rappresentare qualcosa che trascende l’udito e la vista umana. Lo fa con una ineguagliabile poesia con cui mi piace concludere questa modesta analisi; lo fa traducendo le parole in musica, e le immagini in tocchi soffusi.
Paradiso canto XXX
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E vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.63
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;66
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori…
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,93
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.96
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!99
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.102
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.105
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.108
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,111
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.114
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!117
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.120
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.123
Dalle «Conferenze» di san Tommaso d’Aquino, sacerdote
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Le brame dell’uomo si appagano solo in Dio, secondo quanto dice Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te».
I santi, nella patria, possederanno perfettamente Dio. Ne segue che giungeranno all’apice di ogni loro desiderio e che la loro gloria sarà superiore a quanto speravano. Per questo dice il Signore: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21); e Agostino aggiunge: «Tutta la gioia non entrerà nei beati, ma tutti i beati entreranno nella gioia. Mi sazierò quando apparirà la tua gloria»; ed anche: «Egli sazia di beni il tuo desiderio». Tutto quello che può procurare felicità, là è presente ed in sommo grado. Se si cercano godimenti, là ci sarà il massimo e più assoluto godimento, perché si tratta del bene supremo, cioè di Dio: «Dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15, 11).
La vita eterna infine consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l’altro come se stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio.
Così il gaudio di uno solo sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati.