
Londra, 3 settembre 1939. Un’ambientazione scontata quando si parla di C.S. Lewis: una città sotto la minaccia dei bombardamenti tedeschi. È quella l’ambientazione delle sue incredibili Lettere di Berlicche, ed anche il punto di partenza delle celebri Cronache di Narnia, indubbiamente richiamate nella scena della stazione ferroviaria gremita di bambini che vengono sfollati in campagna. Lewis stesso ne accolse alcuni nel suo cottage di Oxford… Ma c’è un altro elemento che rende importante questa situazione di guerra. Dal 1941 al 1943, Lewis parlò alla Raf in un programma della BBC seguitissimo anche dai civili, tanto che la sua voce, dopo quella di Winston Churchill, era la più nota agli inglesi. Sir Donald Hardman scrisse:
«La guerra, l’intera vita, tutto tendeva a sembrare inutile. Avevamo bisogno, molti di noi, di una chiave per il significato dell’universo. Lewis forniva proprio questo».
C.S. Lewis scrittore cristiano

Nel 1939, Lewis era molto noto negli ambienti culturali britannici non solo per i suoi studi sulla letteratura inglese medievale e rinascimentale, ma anche per la sua eclatante conversione al cristianesimo, complice l’amico Tolkien. Ma mentre Tolkien nelle sue opere non sbandierava, per rispetto, la sua fede, ma ne traduceva i valori in simboli, C.S. Lewis con i suoi scritti aveva fatto della propria fede un fatto pubblico. Una osservazione: leggo in tutte le recensioni, o quasi, che Lewis era uno scrittore cattolico. Niente affatto: lasciato per l’ateismo il puritanesimo della sua infanzia, tornando ad una fede infinitamente più matura era approdato alla confessione nazionale, l’anglicanesimo, nella forma della Chiesa Alta, quella Chiesa che a dire la verità condivide completamente la dottrina cattolica, tranne quanto riguarda l’unione al Papa di Roma.
Nel 1939, quando si finge avvenuto l’incontro con Freud, Lewis aveva già pubblicato un importante anche se non bellissimo romanzo allegorico, Le due vie del pellegrino (The Pilgrim’s Regress, 1933) ed il fondamentale romanzo, pietra miliare della fantascienza, Lontano dal pianeta silenzioso (Out of the Silent Planet, 1938), oltre al saggio attinente alla propria docenza universitaria, L’allegoria dell’amore (The Allegory of Love: A Study in Medieval Tradition, 1936). Non aveva ancora la notorietà planetaria che gli avrebbero assicurato appunto gli scritti del tempo di guerra, Il Problema della sofferenza (1940), Le Lettere di Berlicche (1942), Perelandra (1943) e le sue conversazioni radiofoniche alla BBC (Mere Christianity, pubblicate in italiano da Adelphi col titolo poco felice di Il Cristianesimo così com’è). Tuttavia C. S. Lewis si era già distinto, almeno in Inghilterra, per la sua opera di divulgazione cristiana. È ancora, nel 1939, uno scrittore emergente.
Confronto fra titani?
Il suo antagonista intellettuale, Freud, viene rappresentato invece nella sua condizione di declino. Oltre che anziano, è malato terminale, e morirà infatti tre settimane dopo per overdose di morfina. Nel film, ancora battagliero nonostante l’atroce sofferenza fisica, convoca il giovane intellettuale cristiano in una sorta di sfida sulla fede. Ognuno dei due, è ovvio, sostiene cortesemente le proprie idee; nessuno dei due convincerà l’altro. Né ci saremmo aspettati esito diverso.
Ora, a me sembra che questo confronto, che avrebbe dovuto rappresentare il pezzo forte del film, sia invece la parte più debole. La conversazione sul tema della fede si mantiene ad un livello molto superficiale, con brevi frasi fatte, mentre invece quello che viene allo scoperto, almeno per chi conosce la vita dei due personaggi, sono le loro fragilità e i loro traumi.
Freud, abituato ad analizzare gli altri, cerca di rintuzzare in sé il problema di un rapporto non facile con un padre rigoroso e del rapporto, possessivo da ambedue le parti, con la figlia Anna. Come dire: Medice, cura teipsum! Medico, cura te stesso! Anthony Hopkins è magnifico nella parte di Freud. Si può dire che non interpreta Freud, è Freud in questo film, come in Viaggio in Inghilterra (1993) non interpretò C.S. Lewis, fu C.S. Lewis…
C.S. Lewis cerca di rimuovere il trauma della guerra, la Grande Guerra da lui combattuta nelle trincee francesi. Nella sua autobiografia Sorpreso dalla Gioia ne accenna appena, spiegando che l’esperienza traumatica della guerra in tutti i suoi orrori era troppo diversa dal suo vissuto normale perché ne potesse parlare. Ricorda la sua prima impressione al fischio del primo proiettile che lo sfiorò: Ecco la guerra. Ecco ciò di cui parlava Omero… Non mi risulta che andasse soggetto ad attacchi di panico. Tuttavia questa scelta si può ammettere come licenza poetica per visualizzare la permanenza in lui di questo choc profondo.
L’altro aspetto segreto che viene allo scoperto in Lewis è il rapporto con la madre di un suo commilitone, cui aveva promesso di prendersi cura nel caso in cui il giovane non avesse fatto ritorno dalla guerra. In effetti Paddy Moore scomparve in guerra (fu dichiarato disperso; non morì in presenza di C.S. Lewis come viene fatto vedere nel film) e Lewis ne prese con sé la madre, insieme alla figlia minore Maureen. Visse con questa famiglia adottiva dal 1918 al 1951, quando la donna, che aveva 25 anni più di lui, morì. Rifiutò sempre di parlarne, e nessuno seppe mai di che genere fosse il rapporto che si era instaurato fra di loro, neppure il fratello Warnie che viveva nella stessa casa. La signora era briosa e affettuosa ma intellettualmente rozza e caratterialmente difficile, e rappresentò per Lewis un modello femminile negativo dal quale si distaccò a fatica.
Altro elemento debole del film: un attore del calibro di Anthony Hoplins avrebbe dovuto essere bilanciato, in questo confronto fra titani, da un giovane attore di calibro corrispondente, non saprei dire chi. Bravo Matthew Goode, che però non riesce ad avere abbastanza peso. Del resto, mi sembra che sia il suo personaggio ad essere debole: dove è l’acutezza intellettuale di C.S. Lewis, dove è l’humour britannico di cui tanto si avvaleva nelle argomentazioni? Se Freud ride amaramente, qui Lewis sorride appena. Non era questo il suo carattere.
Una immagine di paradiso

Leggo, su una recensione de «L’Avvenire», che «è Freud che per lo più guida il gioco». Non mi sembra: naturalmente, Freud è l’ospitante, è l’anziano, è lui che ha mandato a chiamare il giovane interlocutore. È a lui che spetta l’iniziativa, ma i giochi procedono alla pari. Anzi, c’è uno stallo, tanto che non si capisce perché i due si siano incontrati, per rimanere così tanto alla superficie dei problemi. Se c’è un approfondimento, è piuttosto quello della psiche di C.S. Lewis, affrontato in modo onirico.
Tra i flashback, infatti, ce n’è uno che mi è caro in modo particolare: il giardino giocattolo fatto dal fratello maggiore di Lewis, Warnie, realizzato in una scatola di biscotti.
«Un giorno, mio fratello portò nella nostra stanza il coperchio di una scatola di biscotti che aveva ricoperto di muschio e ornato di fiori e ramoscelli per dare l’idea di un giardino o di una foresta giocattolo. Fu la prima cosa bella che abbia mai visto. Il giardino giocattolo fece quello che il giardino vero non era riuscito a fare. Mi permise di scoprire la natura: non come fonte di forme e di colori, ma come qualcosa di fresco, di rugiadoso, di giovane, di vitale. Al momento non vi feci caso, ma l’effetto che ne ebbi doveva rimanere impresso nella memoria. Finché vivrò, la mia immagine del Paradiso conterrà qualcosa del giardino giocattolo di mio fratello».
Questa immagine di paradiso Lewis l’ha portata sempre con sé, prima come una nostalgia, poi come una Gioia; e l’ha regalata ai suoi lettori, che si contano a decine, centinaia di milioni, e che trovano nelle sue opere una parola di speranza. Direi che il gioco l’ha guidato lui.