Come Mosè innalzò il serpente…
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3, 14-21)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Il serpente di bronzo
Con il detto evangelico dell’elevazione del serpente di bronzo, siamo ai vertici del mistero della Redenzione. Eppure, la figura biblica che Giovanni usa come annuncio esplicito della passione / glorificazione del Figlio dell’uomo in 3,14 è una figura non umana né accattivante, anzi repulsiva. Una delle prime parole di annuncio del Cristo, da parte del Battista, lo presentava sotto l’immagine dell’Agnello dolce e mansueto. Ma adesso Gesù si paragona ad un serpente, e di bronzo per di più: il serpente innalzato nel deserto da Mosè.
Rispetto al cuore palpitante dell’agnello, rispetto all’obbedienza filiale dell’Unigenito, rispetto alle stimmate sanguinanti del Trafitto, che cosa ha a che fare la fredda e viscida immagine di un serpente di metallo? Eppure, in Gv. 3,14-15 Gesù si paragona al serpente, che nella tradizione giudaica e nella Scrittura, anche se semplice creatura, è un essere malefico.
La figura del serpente
Il serpente veniva qualificato come seduttore, colui che svia, sia nei documenti rabbinici (Sifré Dt. 323; Midrash Tannaim su Dt 32,33) che nel Nuovo Testamento (Ap 12,9; 20,3).
Eppure, come il sacrificio dell’agnello pasquale, come la pietà filiale di Isacco, come il misterioso anonimo Trafitto, anche questa immagine, in appena un versetto, contiene, anzi più degli altri lo esplicita, un rimando alla morte salvifica del Cristo.
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto,
così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo
affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Il serpente di bronzo nell’ebraismo
Il rimando di Gesù è ad uno stranissimo episodio del libro dei Numeri (21,5-9), in cui all’ennesima mormorazione il popolo di Israele, nel deserto, viene assalito da una frotta di serpenti dal morso letale, tanto che vengono chiamati seraphîm, ovvero i brucianti.
Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà morso e lo guarderà, vivrà» (Nm 21,8).
E così fu: chi, morso da un serpente velenoso, guardava al serpente di bronzo, si salvava dalla morte.
Oltre che in Nm 21,4-9, ed in Sap 16,5-14 e Gv 3,14 s. che lo interpretano, il serpente di bronzo (o di rame, in ebraico è lo stesso) è menzionato anche in 2 Re 18,4. In tale testo si dice che il re Ezechia, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., eliminò dal tempio di Gerusalemme il serpente di rame che vi era divenuto oggetto di culto.
Questa tradizione è contraddittoria. Da una parte la religione di Israele è rigorosamente aniconica, cioè priva di immagini, dall’altra Dio stesso ordina di forgiare e di guardare un’immagine che si presta fortemente all’idolatria. Ezechia risolse il problema eliminando fisicamente l’immagine del serpente; la tradizione successiva la purificò interpretandola mediante una lettura sapienziale. È quello che fa il libro della Sapienza alle soglie dell’età cristiana, puntualizzando che la salvezza non viene dall’atto prodigioso, dal guardare un oggetto, ma dalla fede nel Dio che salva (Sap 16,6 ss.).
«Essi avevano in effetti il simbolo della salvezza,
che ricordava loro il comandamento della tua Legge,
perché colui che si volgeva verso di lui
non era salvato da ciò che contemplava (verbo theoréo),
ma da te, Salvatore universale…
Non li guarì né un’erba né un emolliente,
ma la tua Parola, o Signore, la quale tutto risana» (Sap 16,12).
Stessa cosa nel Targum (traduzione aramaica della Bibbia ebraica):
«E capitava che quando un serpente aveva morso qualcuno, questi guardava al serpente di rame e il suo cuore era rivolto al nome della parola (logos) del Signore e viveva».
È interessante che nel Targum, che in forma orale si è formato e trasmesso prima dell’epoca di Gesù, faccia questo richiamo alla Parola di Dio come oggetto dello sguardo del cuore di chi era stato morso dal serpente. Il IV Vangelo, infatti, è proprio il Vangelo della Parola / Logos del Padre.
In mRosh hashannah 3,8:
«E che il serpente fa morire e il serpente mantiene in vita? No, ma ogniqualvolta gli israeliti volgevano la mente al cielo e assoggettavano il loro cuore al loro padre celeste, guarivano, altrimenti si distruggevano».
È chiaro: è il Signore che salva, il serpente innalzato come stendardo è solo un segno.
Come Mosè innalzò il serpente: il simbolismo
I simboli presenti in questo detto sono due: il serpente e l’innalzamento da terra. Il serpente è un simbolo ambivalente, e non solo di male. Infatti, simboleggia anche la vita nuova: è l’unico animale che a primavera “rinasce” dalla sua vecchia pelle, e col suo veleno si facevano medicinali. Giovanni in certo modo si serve di questa immagine per mostrare che Gesù innalzato sulla croce dà la vita eterna a coloro che credono in lui. In Gv. 3,13-21, coloro che credono in Gesù devono appunto rinascere dall’alto e di nuovo (ánothen). Ma anche l’innalzamento è un termine ambiguo. Il verbo innalzare (hypsóo) in Giovanni è di fondamentale importanza, rappresentando anche un gioco di parole: infatti, essere innalzati voleva dire essere elevati sopra gli altri e quindi essere glorificati; ma nel parlar comune voleva dire anche essere appesi, giustiziati.
Questa immagine che sembra tanto semplice, allora, si mostra incredibilmente complessa e profonda; e sono rimasta solo alla superficie… Tanto più che l’innalzamento è espresso con il tipico passivo divino spesso usato da Gesù a designare l’opera di Dio: nella frase il verbo è al massivo ma manca il complemento di agente. Esempio: Il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani degli uomini (Mc 9,31). Consegnato da chi? Sì, sarà consegnato da Giuda, dai capi del popolo, da Pilato, ma il fatto che niente di questo venga espresso predispone il verbo a rimandare a Chi veramente consegna il Figlio, il Padre suo.
Ma l’uso di questo verbo connette l’immagine del serpente innalzato anche con la figura del Servo sofferente, implicitamente evocata dal verbo hypsôthênai (“essere innalzato”): «il mio servo sarà innalzato (hypsôthêsetai) e glorificato molto» (Is 52,13 nella traduzione dei LXX).
Per Giovanni è qui contenuta la figura del Cristo crocifisso: il serpente diviene segno del Figlio dell’uomo innalzato sulla croce, o meglio è l’innalzamento stesso il segno, mentre allo sguardo (espresso in Nm 21,9 versione dei LXX con il verbo epiblépo, “vedere”, come in Zc 12,10) è sostituito il più diretto ed esplicito pistéuo ( “credere”):
Come Mosè innalzò il serpente nel deserto,
così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato,
affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (3,14 s.; cfr. 8,28; 12,32).
Questa scelta linguistica, che omette il verbo “vedere” come condizione per la salvezza, è intenzionale: non basta “guardare”, bisogna andare oltre le apparenze del segno, credere nel Figlio dell’uomo, così come sarà espresso anche nei versetti seguenti, dove il titolo di “Figlio dell’uomo” sarà sostituito da quello di Figlio Unigenito.
La donazione del Figlio unigenito
Il loghion (detto) sul serpente (Gv 3,14) non può essere letto da solo, ma con la sua necessaria motivazione: la donazione del Figlio unigenito per la vita del mondo (Gv 3,16 s.). In una frase che Schnackenburg definisce scultorea, Giovanni riassume l’intero messaggio di redenzione, fondato sull’incomprensibile amore di Dio per il mondo, che di sua iniziativa colma l’abisso che si era aperto fra Lui e gli uomini. Dio ama il mondo, senza neppure che il mondo lo ami. Il mondo appare come una realtà globale, che ha però bisogno di essere salvata perché incerta, incompleta, corrotta, o minacciata.
L’innalzamento sulla croce
Il polo finale della missione di Gesù poneva grandi difficoltà ai discepoli: lo scandalo della croce, il rifiuto di credere ad un Messia – anzi, più che un Messia – crocifisso. Il Messia doveva inaugurare il mondo nuovo e così rimanere per sempre (cfr. Gv 12,32-34). Come comprendere allora la morte del Cristo, e, per di più, la morte sulla croce? Giovanni, come tutti gli altri scrittori del Nuovo Testamento, deve confrontarsi con la realtà storica della morte di Gesù per crocifissione.
La croce è una maledizione di Dio (cfr. Dt 21,22 s.), un castigo infame per coloro che hanno disprezzato Dio e infranto la sua Legge nel peggior modo, lo scacco di una missione. Giovanni deve superare questa visione, grazie al paradosso di Dio: mostrare che la croce non è il luogo dell’abbandono, ma il luogo elevato dell’unità più perfetta del Figlio con il Padre.
Dio aveva infatti annunciato questo evento nell’evento dell’elevazione del serpente da parte di Mosè nel deserto, pallida prefigurazione dell’elevazione del Figlio dell’uomo sulla croce / in cielo. Nel testo giovanneo la morte di Gesù è una elevazione (hypsôsis) (3,14; 8,28; 12,32.34) che è insieme elevazione sulla croce ed elevazione nella gloria.
Come Mosè innalzò il serpente nel deserto…
Sappiamo di quali suggestioni negative fosse carica, nel pensiero biblico, la figura del serpente. Nel racconto delle origini, il male passa attraverso la parola del serpente. Seguo, a questo riguardo, l’analisi di P. Beauchamp. Il serpente è il primo ermeneuta perché è il primo a interpretare la Parola di Dio all’uomo, anche se la interpreta nel modo sbagliato. «Il meno parlante fra tutti gli animali proprio perché esso rappresenta non tanto la parola quanto l’opacità del messaggio», il suo ermetismo, il dire e non dire. «Il vero messaggio del serpente è quello che non pronuncia»… ma sta all’interlocutore scegliersi il proprio ermeneuta di fiducia.
Ironia della sorte: per quella logica di paradossi di cui Dio si compiace, proprio il serpente, l’antico Avversario, suasore di morte (Gn 3,15), è stato scelto per divenire simbolo di vita, e di Vita eterna. Nessuna realtà creata è disprezzata e rifiutata da Colui che ha assunto la natura creata fino ad illividire il suo corpo nella morte, nella morte di croce. Nessuna realtà creata rimane estranea all’evento della salvezza, perché tale è stata la scelta dell’Incarnazione; ogni realtà creata aspira alla riconciliazione e alla liberazione dalla sofferenza e dalla corruzione, e questa è opera dello Spirito (Rom 8,19-23; Is. 11,1-10).
Anche il gelido corpicciolo di un rettile immondo (cfr. Lev 11,43 s.) può essere immesso nel movimento della Carità divina. Guardare ciò che pende dal legno (Nm 21,8) non accende più il desiderio distorto di travalicare i limiti creaturali per «essere simili a Dio», come nel racconto della Caduta, ma lo guarisce.
«Il prestigio dell’immagine “bella da vedere” ha sedotto la donna. Nel deserto però, sullo stendardo su cui è issato il serpente, nulla è dato da vedere oltre l’immagine senza immagine: squallore, malattia, morte. Colui che si riconosce come lui converte questo squallore non in bellezza ma in gloria, che è più della bellezza e libera dalle sue reti» (P. Beauchamp).
Il male, rappresentato dall’istantaneità con cui il serpente morde e dà la morte, viene generato a prezzo di un lungo travaglio lungo tutta la storia umana. La liberazione è portata da Colui che assume, in qualche modo, l’immagine del serpente.
La paradossalità del concetto è già contenuta nella immagine veterotestamentaria usata per esprimerla: gli israeliti nel deserto avevano dovuto guardare al serpente elevato, per essere liberati dalla stessa piaga dei serpenti; l’immagine dello sguardo alzato si ritrova nell’allusione al trafitto di Zc 12,10: Guarderanno a colui che hanno trafitto.
L’apice del cammino storico di Gesù è secondo Giovanni lo sguardo a Colui che, dopo essere stato innalzato sulla croce, viene trafitto. Siamo, così, riportati alla scena del Calvario. Questo è il culmine del IV Vangelo, che si dipana come un cammino di gloria fino all’ultima elevazione / ascensione che è la Croce. Dove tutto umanamente sembra perduto, nasce la vita, e dove la vita terrena muore nell’ultima lacerazione, sgorga lo Spirito. Il segno di questa vita nuova ed eterna, paradossalmente, lo troviamo nelle piaghe del Cristo, impresse per sempre nel suo corpo glorioso. E mi si permetta, per una sola volta, di fare un uso accomodatizio della Scrittura, adattando la profezia di Zaccaria:
E se gli si dirà: Perché quelle piaghe in mezzo alle tue mani?
Egli risponderà: Queste le ho ricevute in casa dai miei amici (Zc. 13,6).