Iniziamo qui un piccolo percorso di conoscenza delle chiese romaniche elbane. Infatti, l’isola d’Elba racchiude in sé un vero patrimonio di chiese romaniche, ricordo del periodo in cui la repubblica pisana dominava l’arcipelago toscano. Anche se delle quattro pievi e delle numerose chiesette attraverso le quali si consolidavano e si esprimevano la vita religiosa e la vita civile ben poco si è salvato, la memoria storica permane, e vale la pena di scoprirla.
Come potete osservare nella mappa riportata in apertura (peraltro incompleta, perché di alcune chiese si è persa anche la memoria dell’ubicazione), per visitare le chiese romaniche elbane occorre compiere un vero e proprio periplo dell’isola, disposte come sono lungo tutte le sue coste.
Le testimonianze
La cristianizzazione della costa livornese deve molto al monachesimo. Si pensi che il borgo di Piombino ha visto come motore del suo sviluppo il monastero di S. Giustiniano di Falesia, e che la pieve di S. Lorenzo, l’unica della diocesi a nascere non fuori delle fortificazioni ma all’interno del castello, dipendeva anche per la cura d’anime non dal vescovo ma dall’abate del monastero. Della stessa libertas romana godeva l’abbazia di S. Pietro a Monteverdi, con giurisdizione sulla relativa pieve.
Ben quattro monasteri, infatti, sorgevano sul territorio: S. Mamiliano a Montecristo (V secolo), S. Pietro a Monteverdi (754), S. Quirico (primi secoli dell’Alto Medioevo) e S. Giustiniano nel promontorio di Populonia – Piombino; né è da dimenticare il romitorio di S. Cerbone all’Elba (post 575).
La cristianizzazione dell’arcipelago toscano
La cristianizzazione dell’arcipelago toscano è arrivata, ovviamente, via mare, ed è documentata in testimonianze scritte fin dal IV secolo. Nelle isole, il fenomeno del monachesimo occidentale trovò un terreno fertile, in quanto le isole offrivano dei veri e propri «deserti» marittimi. Allo stesso modo, nel nord europeo erano le foreste a rappresentare per i monaci e gli eremiti l’equivalente del deserto egiziano da cui il monachesimo aveva preso inizio.
Capraia e Gorgona
Sembra che una prima comunità di monaci basiliani si sia insediata a Capraia nella seconda metà del IV secolo. Negli ultimi decenni dello stesso secolo, Sant’Ambrogio presenta nell’Exameron le isole come luoghi propizi al raccoglimento spirituale per le persone a ciò consacrate.
La conferma viene, in negativo, dal pagano Rutilio Namaziano che nel 417, nel viaggio di ritorno in Gallia, si scaglia contro i «viri lucifugi» che in odio al mondo si erano ritirati nelle isole di Capraia e di Gorgona.
Montecristo
Le testimonianze epistolari di Gregorio Magno attestano che un altro monastero sorgeva sull’isola di Montecristo, ed anche S. Girolamo testimonia l’esistenza di «monachorum chori» sparsi «per totum Etruschum mare».
Pianosa
È invece solo archeologica la testimonianza più antica della presenza di una fiorente comunità cristiana nell’isola di Pianosa. Lo attestano le catacombe del III-IV secolo, sviluppatissime. Sono quelle di maggiori dimensioni a nord di Roma.
L’Elba dopo il collasso dell’Impero d’occidente
Sappiamo poco sui tempi più antichi, quando l’Elba, dopo il collasso dell’impero d’occidente, era stata sotto l’influenza prima dei bizantini, poi dei longobardi. Ma i pericoli maggiori vennero con le razzie saracene, culminate nella prima metà del secolo XI con la minaccia di Mujāhid ibn ʿAbd Allāh al-ʿĀmirī ovvero Mugehid, detto dagli italiani Mughetto o Musetto, che aveva invaso e devastato Pisa nel 1005. Fu sconfitto dai pisani nel 1034, ed ebbe inizio per l’isola un periodo diverso, attestato dalla costruzione delle chiese romaniche elbane oltre che dal potenziamento delle fortificazioni antiche e dalla costruzione di nuove.
Un patrimonio da recuperare
La diffusione dello stile romanico all’Elba è legato alla dominazione pisana fra l’XI e il XIV secolo. Questo periodo rappresentò un relativo tempo di pace, apertosi nel 1016, dopo le devastazioni dei longobardi e le prime incursioni saracene. Furono infatti i pisani a riaprire le cave dell’isola, rimaste a lungo inutilizzate, per ricavarne le colonne di granito che servirono a edificare le loro chiese. La vendita del ferro procurava inoltre al vescovo di Pisa larghe decime. Esiste notizia di spedizioni effettuatevi nel 1063, 1095, 1129, anche se il primo documento che testimonia la sovranità pisana sull’Elba è datato al 1138.
Tale sovranità fu persa temporaneamente a seguito della sconfitta della Meloria, e riacquistata a condizioni gravose nel 1299 pagando ai genovesi 50mila fiorini d’oro; poi, a fine Trecento, l’isola passò insieme a Piombino sotto il dominio degli Appiani. A testimonianza di una lunga dominazione pisana, sull’isola rimangono, appunto, molte chiese romaniche, alcune scomparse o ridotte a pochi ruderi, altre trasformate, solo una rimasta pressoché intatta e restituita al culto. Quel che è restato meriterebbe l’attenzione dovuta ad un passato che in qualche modo ha contribuito a forgiare il presente.
Le chiese romaniche che rimasero a testimonianza di questo dominio politico e della relativa influenza culturale sono tutte piccoli edifici sorti intorno al XII secolo. Che vi fossero maestranze pisane al lavoro sull’isola è confermato anche da un decreto con cui nel 1129 l’arcivescovo di Pisa Ruggero emana disposizioni per la protezione dei fabbri che si recano all’Elba «causa fabricandi», giungendo a decretare la scomunica per chi li molestasse; ma anche le popolazioni elbane contribuirono ai lavori di costruzione.
L’isola dei falconi
Curiosamente, una delle prime testimonianze sulle pievi e cappelle dell’Elba nel Medioevo consiste nel computo di una tassa dovuta all’arcivescovo di Pisa e costituita da un certo numero di falconi da caccia, proporzionatamente alla estensione e popolosità dei vari comuni.
Benché la chiesa dell’Elba fosse soggetta direttamente al vescovo di Populonia – Massa Marittima, un segno della sua dipendenza politica da Pisa era rappresentato dal tributo feudale annuale di falconi da caccia all’arcivescovo. Di tale tributo sono addirittura incaricati «procuratores et sindaci Comunium et hominum Ilbe» eletti all’uopo, anzi talvolta sembra che l’Elba sia unificata come in un unico comune per il quale agiscono i «singuli Consules de Ilba pro Comuni de Ilba» ed un sindaco «totius insule Ilbe» con sede, probabilmente, a Capoliveri (G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Firenze 1970, 89 ss.).
Nel 1259 risulta una «Capitania Ilbe» formata dai comuni di Pedemonte; Marciana e Poggio / Giove; San Piero e Sant’Ilario costituenti il «Campo»; Grassula e Rio; Montemarsale, Ferraja, Latrani; Capoliveri; di tali paesi sono scomparsi Pedemonte, Montemarsale, Latrani e Grassula.
Il tributo in falconi
Questi comuni erano debitori cronici all’arcivescovo di Pisa della dotazione annuale di falconi da caccia. Nel 1259, il sindaco e procuratore dei comuni e delle famiglie dell’Elba, Aliotto, eroga all’arcivescovo di Pisa 60 lire, il corrispettivo in denaro di 35 falconi che per anni non erano stati forniti come dovuto.
Esiste un atto dell’8 agosto 1260, redatto dal notaio Rodulfino, riguardante la donazione annuale di falconi all’arcivescovo Friderico:
«…contingebat comune Marciane falcones XI et comune de Campo falcones XI et comune Grassule falcones III et comune Laterani falcones III et comune Montis Marcialis falcones III et comune Pedemontis falcones III» (Silvestre Ferruzzi, Pedemonte e Montemarsale, 2016, p. 9).
Secondo il Dizionario geografico fisico storico del Repetti (IV, 259), il 4 giugno 1290 anno pisano (1289 anno comune) i comuni elbani furono precettati a pagare entro 20 giorni all’arcivescovo Ruggeri (quello dantesco, cui nella ghiaccia del Cocito il conte Ugolino rode il cranio in eterno) i falconi che per 10 anni non avevano corrisposto, pena la multa di lire 1.000 per ciascun comune; ordine che non poterono eseguire essendo sotto assedio da parte dei genovesi. Sarebbe interessante quotarne il valore in euro…
Testi principali di riferimento
I.- Moretti – R. Stopani, Chiese romaniche all’isola d’Elba, Salimbeni, 1972
Luigi Maroni, Guida alle chiese romaniche dell’isola d’Elba, Pacini, 2004
Silvestre Ferruzzi, Pedemonte e Montemarsale, Bandecchi & Vivaldi, 2013
Alessandro Naldi, Testimonianze di architettura romanica sull’isola d’Elba, «Milliarium» 11 (2014), 90 – 107
I falconi da caccia
A proposito del tributo feudale dei falconi che le comunità dell’Elba dovevano annualmente all’arcivescovo di Pisa, ci permettiamo un «viaggio» fin nell’antichità, dove l’arte della falconeria è nata.
L’ANTICHITÀ
Le prime notizie sulla falconeria provengono dal medio oriente antico, già con l’Epopea di Gilgamesh. Anche nel palazzo di Sargon II a Khorsabad (VIII secolo a.C.) è stato rinvenuto un bassorilievo raffigurante la cattura di un rapace, verosimilmente per addomesticarlo. La falconeria è attestata fra i mongoli e in Cina. Raggiunse poi l’Europa tramite i barbari, soprattutto i goti che l’avevano appresa dai sarmati.
L’unica testimonianza archeologica della venazione aviaria presso i romani, invece, è finora costituita da un mosaico romano raffigurante un cacciatore con un falco che preda anatre (Villa del Falconiere di Argos, circa anno 500).
IL MEDIOEVO
Fu durante il Medioevo che la falconeria si estese ulteriormente, favorita anche dall’influenza araba che aveva assimilato la cultura persiana dei sassanidi. L’uso dei falchi per la caccia si diffonde allora come privilegio delle classi abbienti, data la disponibilità finanziaria necessaria alla cura e all’addestramento dei rapaci.
Carlo Magno proibì ai chierici la caccia, tanto con i cani quanto con astòri e falconi. Enrico I di Germania (876-936) era noto come «Enrico l’Uccellatore» (Heinrich der Finkler) proprio per la sua passione per la caccia col falcone; i monaci dell’ordine monastico-militare dei cavalieri ospitalieri erano specialisti della caccia con i rapaci poiché le altre forme di caccia erano loro interdette come forma di penitenza, mentre per i templari era la falconeria ad essere interdetta.
L’imperatore Federico II fu un grande appassionato di caccia con il rapace e redasse sull’argomento un’opera in sei volumi, De arte venandi cum avibus. Un documento inglese del 1486, Il libro di St Albans, stabilisce che i laboratores possano al massimo possedere un falco di piccole dimensioni, i servi un gheppio, mentre lo scudiero era autorizzato a portare il falco lanario ed il cavaliere il grande falco cherrug; i rapaci più pregiati erano un’esclusiva dei regnanti: il girifalco per un re e l’aquila per l’imperatore.
RAPACI UTILIZZATI NELLA FALCONERIA
Le specie di rapaci utilizzate in falconeria si suddividono in rapaci di alto volo, appartenenti al genere «Falco» (lanciati in volo, salgono in quota e catturano la preda in picchiata) e rapaci di basso volo, appartenenti al genere «Accipiter» (astòre, sparviere ecc.), lanciati direttamente dal pugno all’inseguimento di una preda, e ai generi «Buteo» (poiane) e «Aquila», lanciati direttamente dal pugno oppure fatti volare in volo d’attesa.
Il genere «Falco» comprende i «Falconi» propriamente detti, come il Falco pellegrino e lo Smeriglio, il Falco sacro, il Falco di prateria ed il girfalco.
Il genere «Accipiter» comprende l’astore e lo sparviere; il genere «Buteo» comprende diverse specie di poiane, mentre il genere «Aquila» è scarsamente utilizzato in falconeria in quanto si tratta di animali di grande potenza, difficili da addestrare e potenzialmente pericolosi per l’uomo se costretti ad una interazione forzata.
Il falco pellegrino nidifica ancora all’Elba. Con i suoi 360 km/h che può raggiungere in picchiata, è l’animale più veloce del mondo. Notizie più precise QUI.
Cfr. A. Giorgi, Andiamo alla scoperta del romanico elbano, «Toscana Oggi – Dalla Maremma all’Elba» n. 6/2020, pag. VI.