Chiese romaniche a Capoliveri. Tra le molte chiese romaniche dell’Elba, di cui l’unica aperta al culto ad aver mantenuto l’impianto originario è la chiesa di S. Stefano alle Trane, alcune sono scomparse, come la chiesa di San Mamiliano a Capoliveri; altre sono state oggetto di profonde ristrutturazioni, come il santuario della Madonna della Neve a Lacona; di altre ancora sono rimasti ruderi. È il caso della pieve di San Michele.
La pieve di San Michele a Capoliveri
La chiesa di San Michele e Giovanni si trova nella vallata sottostante a Capoliveri a poche centinaia di metri dal centro abitato, sulla strada che metteva in comunicazione il paese con il porto di Mola. Fu costruita nel XII secolo durante il dominio pisano ed è stata una delle chiese romaniche elbane più belle dal punto di vista architettonico. Insieme a quelle di San Giovanni in Campo, San Lorenzo di Marciana e San Giovanni Battista e San Silvestro a Ferraja (completamente distrutta nel XVI secolo), le fu riconosciuto il titolo di Pieve.
Vincenzo Mellini ne ipotizzò nell’Ottocento la planimetria: lunghezza interna escluso l’abside 14,80 mt, larghezza interna mt 6,20.
La documentazione
La prima citazione come Plebs de Capitelibero è del 21 novembre 1234. In un rogito notarile si dichiara che la pieve riceve tutti i possedimenti e le rendite di San Felice dè Croce dell’isola d’Elba (territorio di San Felo).
È poi citata come Plebes de Campolivero (1298) e Plebs de Capolivero (1302-1303) negli elenchi delle chiese che pagano le decime alla diocesi (Rationes Decimarum Tusciae). Nelle Rationes decimarum Tusciae del 1298 la pieve di Capoliveri è registrata con un tributo di 2 libbre, inferiore a quello delle altre pievi. Fu nei primi anni del secolo successivo che divenne invece la chiesa elbana di maggior reddito. Infatti, nelle Rationes del 1302-1303 figura con un tributo di 5 libbre d’argento e 10 soldi, di gran lunga superiore a quello delle altre pievi.
Un atto notarile del 1343, redatto a Capoliveri, ricorda che «don Benedetto, della pieve dei santi Michele e Giovanni di Capoliveri… ordinò suoi procuratori e messi fidati don Bernardo, pievano della pieve di san Giovanni in Campo e don Prova, della pieve dei santi Giovanni e Silvestro di Ferraja…».
Un altro documento notarile registra:
«Capoliveri, 13 aprile 1364. Matteo di Vico pievano della pieve di San Michele in Capoliveri procuratore, come egli affermò del signor arcivescovo di Pisa, davanti a me […] ricevette da Matteo Ghesi, console del comune di San Piero, in nome e a favore del comune, due falconi, per il censo del falcone dovuto al signor Arcivescovo per un anno del presente che sta per scadere al primo di maggio. Atto nel comune di Capoliveri nella Curia, presente Matteo di Benedetto da Pisa».
Eventi storici: un Papa…
Riguardo alla sua storia, uno degli eventi degni di nota fu la sosta inattesa e forzata di Gregorio XI all’Elba nel novembre 1376. Ciò avvenne durante il viaggio che riportava la sede pontificia da Avignone a Roma. Il Papa aveva scelto di viaggiare per mare, ma partito da Marsiglia, dopo gli scali a Genova ed a Pisa, fu costretto da un violento fortunale a riparare nel golfo di Mola sotto Capoliveri. Volle, così, celebrare una Messa proprio nella chiesa di San Michele il 17 novembre. Ripresa la navigazione, approdò a Tarquinia e da lì raggiunse Roma il 17 gennaio 1377.
… due corsari…
La pieve venne assalita dal corsaro Barbarossa il 5 agosto 1544, e dal corsaro Dragut nel 1553, e fu ridotta a rudere. Anche il paese di Capoliveri subì danni gravissimi. Ancora dopo qualche anno, nel marzo 1567, il prete Niccolò Sardi da Marciana così scrive nelle sue memorie redatte in occasione della visita del vescovo:
«Visitai innanzitutto la chiesa plebana di San Michele… che trovai devastata dai turchi. Entrando nella terra trovai ugualmente tutto bruciato e diroccato: in essa vidi l’altra chiesa di San Mamiliano e monastero o badia dei Camaldolesi, che del pari trovai più che a metà in rovina…».
A Capoliveri la pieve di S. Michele era «derelictam propter Turcos» e un’altra chiesa, dedicata a S. Maria, era completamente rovinata («devastatam, sine tecto, sine osthio et sine altaribus»): il pievano conservava i sacramenti in S. Mamiliano, divenuta «refugium totius populi propter dictas ecclesias dirutas».
… e i risultati
Sappiamo che nel 1814 della chiesa di S. Michele era rimasta solo l’abside e due pareti sino ad una certa altezza. A seguito dell’editto di Napoleone, che vietava che si seppellissero i morti dentro le chiese di paese, l’antica pieve suburbana divenne un cimitero dopo che ne fu ricostruito il muro perimetrale.
Per tutto il 1900 il luogo fu completamente abbandonato. Solo nei primi anni del Duemila i resti romanici sono stati oggetto di un restauro che li ha riportati alla bellezza originaria.
Sono rimasti intatti solo l’abside e parte del muro nord. L’abside è composta da filaretti di calcare bianco-rosa e decorata da arcatelle a tutto sesto che poggiano su mensole e lesene. Dai ruderi si può arguire che la chiesa fosse lunga 16 metri e mezzo.
Era costituita da un’unica navata probabilmente coperta da un tetto a capanna a capriate in legno. Sulla facciata si doveva trovare il campanile a vela, tipico dello stile romanico.
Il santuario della Madonna della Neve di Lacona
Dei cinque santuari principali presenti all’Elba, quattro sono mariani, e la loro costruzione (o ricostruzione) risale al Cinquecento, periodo in cui essa fu incentivata dalla devastazione portata dai saraceni di Barbarossa e Dragut che praticamente distrussero tutte le chiese romaniche dell’isola. Così, sopra Marciana troviamo la Madonna del Monte; nel territorio di Capoliveri la Madonna delle Grazie; presso Porto Azzurro la Madonna di Monserrato, santuario legato alla fondazione della colonia spagnola; il quarto santuario, questa volta dedicato a S. Caterina di Alessandria, è situato invece nel comune di Rio; infine, la Madonna della Neve a Lacona.
Questi santuari sono stati costruiti in luoghi appartati e non, come le pievi, sugli antichi percorsi di epoca romana, vicino ai borghi.
La Madonna della Neve
La chiesa della Madonna della Neve sorge sulla cima di una collinetta in località Lacona, nel comune di Capoliveri.
L’edificio attuale presenta caratteristiche dovute ad un rifacimento settecentesco, ma originariamente la struttura, romanica, risale al XII secolo, ovvero al periodo pisano.
Il santuario è costituito da un’unica navata a pianta rettangolare, di 13 metri per 7,4. Nella parte sud si trova il campanile, alto circa sette metri, con tetto a piramide sormontato da una croce; nell’impianto originario era probabilmente rappresentato dal consueto campanile a vela. La sagrestia fu costruita sui resti di un edificio molto più ampio adibito a romitorio, originariamente composto da una cucina, due stanze e due cantine. Dopo l’abbandono dei romiti, fu demolito in gran parte a metà Novecento.
Come in molte chiese romaniche, nella parete longitudinale meridionale si apriva una porta secondaria, che è tornata alla luce con l’intervento del 1951. La facciata è rimasta sobria e senza particolari decorazioni; non risulta che l’edificio romanico fosse dotato di decorazioni scultoree del tipo di S. Stefano alle Trane o architettoniche come la pieve di S. Michele. L’altare è adesso in stile barocco, ricco di stucchi e decorazioni, in sostituzione dell’ordinaria mensa a colonnini. È formato da due colonne laterali che sorreggono un timpano curvilineo sopra il quale si trova il monogramma mariano, coronato, tra due statue di cherubini.
Il dipinto
Sull’altare è custodito il dipinto che ha dato il nome al santuario e che raffigura la Madonna con in braccio il Bambino, che tiene nella mano sinistra il Vangelo e con l’altra indica la stella posta sul manto della Madre.
Esso celebra il miracolo della nevicata sul colle Esquilino a Roma il 5 agosto del 364, episodio che dette origine alla fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore sotto il pontificato di papa Liberio.
Nella parte bassa si scorgono due stemmi, forse riguardanti i donatori del dipinto. L’autore è un certo Marco Aritti, e l’attuale dipinto fu realizzato alla metà del Seicento, quando l’edificio fu restaurato e l’altare ricostruito.
Di ciò rimane anche una significativa testimonianza di Coresi Del Bruno governatore di Portoferraio:
«Il quadro di questa [chiesa] dalla lunghezza del tempo era disfatto, fu dal signor Grifoni governatore di Portoferraio fatto rifare nell’anno 1650 con l’immagine di Nostra Signora, al presente detta Madonna dell’Acona nella qual chiesa si fa festa il dì 5 agosto, concorrendovi devotamente molti popoli di quest’isola».
La popolazione, evidentemente, era attaccata al «suo» quadro. Vincenzo Paoli racconta sulle pagine dell’«Elba illustrata»:
«Il dott. Alessandro Foresi, possidente cospicuo del piano [di Lacona], mosso dalla bruttura del sacro dipinto e da un impeto liberale verso i Laconesi, commise una tela consimile all’insigne pittore fiorentino Antonio Ciseri. Ma il giorno che l’opera egregiamente compiuta doveva essere sostituita, i beneficianti si ribellarono concordi e impedirono il baratto, sospettando il Dottore di volersi appropriare una Madonna così prodiga di grazie per mettercene un’altra che non sarebbe probabilmente stata buona a nulla».
La storia
Per quanto riguarda le origini, la fondazione della chiesa fu attribuita ai discepoli di san Giovanni Gualberto oppure ai monaci di Montecristo, ma non vi sono conferme storiche.
La chiesa romanica fu rifondata nella seconda metà del XVI secolo e da allora subì numerosi interventi strutturali. Alla metà del Seicento, sotto il governatore di Portoferraio Pietro Grifoni, fu sostituito l’altare, ricostruito il presbiterio e e fondato il romitorio. Infine fu commissionato un nuovo quadro a Marco Aritti.
I romiti
Il santuario era affidato alle cure di romiti, di solito due, nominati dal magistrato di Capoliveri. Vestivano poveramente e vivevano con le questue e le vendite di vino e grano ricavati dai terreni in dotazione al santuario.
Disponevano di una cantina con due tini e cinque botti, tre saccate di vigna e altre due di grano. Nel XVII secolo si registrano molte donazioni al santuario. Il 27 aprile 1779 il luogo sacro è meta di una grossa processione di capoliveresi, per implorare la Madonna di far terminare una lunga siccità.
Nel 1793, l’11 giugno, i due anziani romiti furono uccisi a scopo di furto da due soldati della guarnigione napoletana di Longone. Fra Settecento ed Ottocento le truppe inglesi e poi quelle francesi si muovevano nel territorio e pare che anche il santuario venisse saccheggiato; i romiti vi tornarono solo con la Restaurazione. L’ultimo fu Giuseppe Tosi, nel 1817. Da allora la chiesa passerà in custodia alla parrocchia di Capoliveri.
Restauri
Alla metà dell’Ottocento fu costruito il campanile. Nel 1890 venne aperta una finestra nella facciata, rifatto il pavimento e rinforzate le muraglie, a causa di cedimenti.
Il restauro nel 1951 ha riportato alla luce gli antichi resti dell’edificio romanico, come il muro sulla parte sud caratterizzato dai tipici filari di conci ben sbozzati e le tracce di una porta secondaria sulla parete centrale. Dalle fondamenta si rilevò che la struttura medievale era lunga 9,75 e larga 5,25 metri; aveva un’abside dal raggio esterno di 1,83 metri, era mononavata ed era caratterizzata dal tipico orientamento est-ovest. Fu demolito gran parte del romitorio ormai pericolante e ristrutturata la sacrestia, ricostruito il campanile dopo che un fulmine lo aveva danneggiato, e restaurati dipinto e decorazioni. Agli inizi degli anni 1970 fu ricostruito il tetto, e nel 1996 furono consolidate le strutture murarie e ricostruita la sacrestia.
Chiesa di San Mamiliano
Il periodo camaldolese
La chiesa di San Mamiliano, oggi non più esistente, era un edificio religioso del XII secolo ubicato all’ingresso del borgo di Capoliveri. È ricordata in un documento trecentesco:
«Capoliveri, 9 marzo 1364. Don Giovanni, abate di Montecristo, vicario nelle cose spirituali del signor vescovo di Massa, per queste ed altre cose come egli disse, alla richiesta del rettore della chiesa di San Quirico, dichiarò di aver ricevuto da lui 30 lire e 5 soldi in nuovi grossi ghibellini per la consacrazione del predetto Vescovo. Atto nel Comune di Capoliveri nella chiesa di San Mamiliano, presenti Piero di Guglielmo e Matteo Bonetti da Pisa».
Alcuni anni dopo, nel 1387, un episodio testimonia lo stretto collegamento tra l’Elba e Montecristo: l’elbano don Antonio fu incaricato di recarsi nel monastero di Montecristo con la nomina di abate.
Sul finire del secolo XV, un documento conservato nell’Archivio statale di Firenze riporta la nomina di don Antonio di Francesco di Piombino, come rettore della chiesa di San Mamiliano in Capoliveri, da parte dell’abate don Angelo da Frassineta.
Rapporti con Montecristo
Documentata già in atti notarili del 1343, la chiesa di San Mamiliano si trovava infatti in diretto rapporto visivo con il monastero di San Mamiliano sull’isola di Montecristo. Accanto ad essa esisteva fin dal XIV – XV secolo un piccolo convento dell’ordine camaldolese la cui ubicazione non è identificabile. Lo storico elbano Vincenzo Mellini affermava:
«Questa chiesa è molto antica e presso la medesima, ma dentro la fortezza, eravi un convento de’ frati. Porta tuttora il nome di Chiostro la stradella che la divide dalle altre fabbriche» (Vincenzo Mellini, Memorie storiche dell’isola d’Elba, a cura di Giorgio Monaco, Firenze 1965, p. 164).
Il monastero di Capoliveri, come quello di Montecristo, seguiva l’ordine camaldolese subentrato a quello benedettino nella seconda metà del secolo XIII, ed era sottoposto al monastero di San Michele in Borgo di Pisa (Enrico Lombardi, Vita eremitica nell’Isola d’Elba e nella vicina costa tirrenica, Brescia 1961, p. 27).
La bolla di papa Leone X, datata 2 luglio 1517, in merito ai beni della congregazione dei monaci camaldolesi recita:
«…et Monastrium de Montecristo cui nimus (…) heremitorium in Elba insula, locus in Capoliveri» (Annales Camaldolenses, VII, doc. 124),
frase che può essere tradotta come «l’eremo dell’isola d’Elba situato in Capoliveri», apportando una ulteriore testimonianza della presenza del monastero nel paese elbano.
Giovanni Vincenzo Coresi del Bruno, nella sua raccolta di memorie redatta nel 1739, scriveva che
«…vicino alla Porta vi è la Chiesa di San Mamiliano con due sante reliquie, con le celle nelle quali abitavano i Monaci di tal ordine, come in questa giurisdizione di Capoliveri vi posseggano molti terreni e case»
(Giovanni Vincenzo Coresi del Bruno, Zibaldone di memorie, manoscritto del 1739, Biblioteca comunale Foresiana di Portoferraio).
L’assalto turco
Incendiata nel 1555 durante l’assalto franco turco guidato da Dragut, la chiesa venne ricostruita negli anni successivi. Un decennio dopo, più esattamente nel 1567, la chiesa di San Mamiliano conservava ancora le tracce del furore turco; così la descrive il vicario del vescovo di Massa e Populonia:
«Visitai innanzitutto la chiesa plebana di S. Michele (…) che trovai devastata dai Turchi. Entrando nella terra trovai ugualmente tutto bruciato e diroccato; in essa vidi l’altra chiesa di S. Maria, distrutta, senza porta e senza altari. Quindi visitai l’altra chiesa di S. Mamiliano o Monastero o Badia dei Camaldolesi, che del pari trovai più che a metà in rovina» (Cfr. Capoliveri, a cura di Gianfranco Vanagolli, Roma 1996, p. 31).
Intorno alla fine del Cinquecento (1595) fu eletto abate generale dell’ordine camaldolese padre Garzia, nativo dell’Elba; questo evento influì positivamente tra la popolazione elbana per una maggiore diffusione del culto di San Mamiliano, tanto che nei primi anni del Seicento (1625) i resti della chiesa di San Mamiliano furono restaurati e ampliati dagli stessi monaci camaldolesi; ne è testimonianza la lettera in cui gli Anziani della comunità di Capoliveri riferiscono al Principe di Piombino che
«la chiesa di S. Mamiliano con il convento delli monaci camandolensi, il quale, per essere alquanto diruto, al presente si va resarcendo et edificando da i predetti monaci» (Ibidem, p. 153).
Secoli diciottesimo – Diciannovesimo
Non ne conosciamo bene i motivi, ma, secondo la tradizione orale, nella seconda metà del Seicento i monaci camaldolesi abbandonarono Capoliveri e tornarono a San Michele in Borgo; il convento verrà in parte abbattuto, e i residui ambienti concessi come abitazioni alla cittadinanza capoliverese.
Sappiamo in ogni modo che per mantenere vivo il culto di San Mamiliano la proprietà effettiva della chiesa e degli altri possedimenti, i monaci, ogni 15 settembre, tornavano a Capoliveri sia per riscuotere gli affitti dei terreni dati a coltivare, sia per celebrare le feste di San’Anna e San Mamiliano. Non ostante ciò, il loro allontanamento provocò un’inevitabile diminuzione del culto.
Nel 1738, il governatore generale del Principato di Piombino, Antonio Ferri, dopo aver visitato le terre isolane di pertinenza dei principi Buoncompagni Ludovisi, scrisse alla principessa Maria Eleonora queste note riguardanti San Mamiliano in Capoliveri:
«Evvi una piccola chiesa che sta posta a mano sinistra verso il mare, nell’entrar della Terra, quale si riconosce essere molto antica: con un solo altare, intitolata a San Mamiliano che era vescovo di Palermo, dal cui vescovato si partì per uccidere un drago che ritrovavasi in Montecristo et infestava que’ popoli. Di questo santo evvi un braccio senza la mano che si espone in giorno di sua festa alla pubblica adorazione nella chiesa parrocchiale di detta terra. Questa chiesola è di ragione de’ padri Camandoli (sic) che una volta abitavano nelle celle che ivi erano fabbricate: le quali in oggi sono affatto dirute e spianate, ed i detti padri hanno venduti i siti ove erano piantate et ora vi si ritrovano case fabbricate da’compratori paesani» (Antonio Ferri, Visita del governatore generale, a cura di Ilaria Monti, Portoferraio 2000, p. 22).
Passaggio al Comune
Risale poi al 1783, da parte del Granduca Pietro Leopoldo, la soppressione del convento camaldolese di San Michele in Borgo di Pisa con tutti i suoi beni, compresa la chiesa di San Mamiliano di Capoliveri e «…con dispaccio del 10 giugno 1783 l’avocò a sé stesso e la donò in seguito alla comunità di Capoliveri nominando un amministratore che, provvedendo alle spese di culto e manutenzione, versasse ogni rimanente, anzi ogni reliquato nella cassa regia in conto di un debito che la comunità aveva col predetto principe» (A.S.C.P., C 57, Sottoprefettura e miscellanea di diverse amministrazioni 1809 – 1829).
Fu nominato amministratore il tenente colonnello Vincenzo Sardi, che prese molto a cuore l’incarico affidatogli tanto che, in seguito alla visita pastorale del vescovo Vannucci nel 1790, e alla temuta possibilità d’interdizione della chiesa di San Mamiliano a causa delle precarie condizioni strutturali, ne fece rifare il tetto, restaurare i muri e costruire un altare dedicato a Sant’Antonio da Padova.
Lo stesso Sardi provvide a scrivere al principe di Piombino un’esauriente relazione sulle proprietà da lui amministrate, una copia della quale è conservata nell’Archivio storico di Portoferraio perché utilizzata successivamente dal governo francese che, impadronitosi dell’Elba, aveva la necessità di monitorare tutti i possedimenti pubblici da cui trarre benefici economici.
Cadde poi in rovina a partire dal XIX secolo, e il degrado della chiesa proseguì in maniera accentuata sino alla fine dell’Ottocento, quando il comune di Porto Longone, del quale faceva ancora parte il territorio di Capoliveri, decise, con deliberazione del consiglio comunale (24 aprile 1894), di demolire la struttura divenuta ormai un rudere e un luogo malsano.
Fu demolita nel 1894 con delibera del comune di Portolongone. Alcune bozze in calcare dell’originario edificio romanico furono inglobate nel muro dell’attuale piazza Matteotti, poco distante dal punto in cui sorgeva la chiesa.
Fonti principali:
I.- Moretti – R. Stopani, Chiese romaniche all’isola d’Elba, Salimbeni, 1972;
Luigi Maroni, Guida alle chiese romaniche dell’isola d’Elba, Pacini, 2004, da cui sono tratte anche alcune foto;
Casini – Maetzke – Trotta, La chiesa della Madonna della Neve a Lacona, Alinea ed., 1988;
Anna Giorgi, Antiche chiese della terra di Capoliveri, «Dalla Maremma all’Elba / Toscana Oggi» n. 30 del 2 agosto 2020, pag. 6-7.