
«Che cosa ti ho fatto?». È l’interrogativo disperato che Giobbe rivolge a Dio nel suo lungo grido. Dopo il primo, forte lamento di Giobbe (cap. 3), intervengono i tre amici, Elifaz, Bildad e Zofar, a correggere lo sventurato. Parleranno tre volte (con una asimmetria nell’ultima serie di dialoghi), e altrettante volte Giobbe risponderà. In realtà il loro sembrerà piuttosto un dialogo fra sordi: ognuno esprimerà le proprie idee, gli amici in modo cattedratico, Giobbe in modo estremamente sofferto, ma senza che vi sia un vero reciproco ascolto. Giobbe, così, soffrirà ancora di più.
Elifaz
Nel suo primo intervento Elifaz si tiene sulle generali, sottolineando la piccolezza dell’uomo e la fallimentare sorte dello stolto e del saccente (cap. 4-5). Nei suoi interventi si manterrà sempre riguardoso e ponderato: non punterà direttamente il dito su Giobbe con la sua spiegazione del dolore come segno del peccato, ma lascerà all’amico il facile compito di trarne le deduzioni personali.
Elifaz parla con gli accenti di un profeta, invocando a sostegno della propria tesi una visione notturna. In essa gli è stata enunciata l’idea fondamentale su cui si basa tutta l’argomentazione: «Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo Creatore?» (4,17). Nessun uomo è senza peccato (4,17-21): la sofferenza ne è la prova. Elifaz stesso con rispetto si colloca tra i peccatori (4,17-21). Giobbe si rassegni all’idea di essere anche lui un peccatore, punito da Dio nei beni a cui è attaccato e nella sua stessa vita (5,1-5). La prova del dolore, secondo Elifaz, si presenta quasi come un dono: è attraverso di esso che l’uomo è liberato dal suo male più profondo (5,17-26).
Giobbe risponde ad Elifaz (cap. 6-7)
Ma questo non conforta Giobbe. Egli anzi ribatte protestando la sua innocenza e invocando la morte come scampo da una sofferenza insostenibile (cap. 6-7): «Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un qualche conforto» (6,9-10).
Giobbe non solo soffre, ma anche sente attorno a sé ergersi un muro di ostilità: coloro che avrebbero dovuto sostenerlo, Dio, ma anche gli amici e la sua stessa vita sono divenuti forze nemiche contro cui deve difendersi. Sembra che Dio lo voglia trattare accanendosi come se il poveretto fosse una delle realtà ostili della natura, il mare o i mostri marini che rappresentano le forze caotiche che mettono in pericolo l’ordine del creato o il disegno della storia (7,12-15). Ma Giobbe a questo riguardo può gridare: «Che cosa ti ho fatto?».
Sembra voler ribaltare addirittura il senso del salmo 8, in cui l’orante si pone la stupita domanda sulla condizione gloriosa dell’uomo: «Che cos’è l’uomo che tu ti ricordi di lui, e il figlio dell’uomo che tu te ne prenda pensiero?» (8,5). Giobbe grida a Dio: «Che cosa è l’uomo che è così importante per te e di cui ti prendi tanto pensiero?» (7,17-18) – per perseguitarlo, però. Anche se fosse peccatore, Giobbe avrebbe diritto ad aspirare ad un minimo di pietà (7,20-21), ma neppure questo gli è concesso. Ad essere deluso, alla fine, sarà Dio che non troverà più il suo bersaglio, scomparso nella morte.
La condizione umana
Ma la questione non riguarda il solo Giobbe, tutt’altro. È in questione la stessa condizione umana, di cui Giobbe è un limpido esempio.
Questa accusa nei confronti di Dio sarà così forte, audace, che a volte assumerà aspetti di contesa giudiziaria, di “lite” o processo intentato contro di Lui. Giobbe non viene mai meno alla sua fede, non dubita mai che Dio sia. Gli sembra nemico, però sempre si rivolge a lui:
7 17 «Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto
e a lui rivolgi la tua attenzione
18 e lo scruti ogni mattina
e ad ogni istante lo metti alla prova?
19 Fino a quando da me non toglierai lo sguardo
e non mi lascerai inghiottire la saliva?
20 Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,
o custode dell’uomo?
Perché m’hai preso a bersaglio
e ti son diventato di peso?
21 Perché non cancelli il mio peccato
e non dimentichi la mia iniquità?
Ben presto giacerò nella polvere,
mi cercherai, ma più non sarò!».
Lo sheol e la vita eterna

Teniamo presente che nell’epoca in cui si è formato il libro di Giobbe non si era ancora affermata la rivelazione dell’esistenza di una vita eterna, se non nella forma dello sheol, quella sorta di fossa comune, di abisso oscuro che inghiotte tutti i viventi e che tutti livella, grandi e piccoli, ricchi e poveri, padroni e schiavi, buoni e cattivi, senza che in quella esistenza umbratile vi sia più gioia, né comunione con Dio, né speranza alcuna. La prospettiva finale dell’uomo è solo polvere, tenebra, malinconia. Tutto il dramma dell’uomo sofferente si svolge e si conclude su questa terra.
Non ci dobbiamo meravigliare di questo: la Rivelazione biblica è progressiva, cresce in relazione alla crescita di sensibilità e di spiritualità dell’uomo, in questo caso del popolo di Israele. Non possiamo interpretare le pagine più arcaiche della Bibbia come se fossero le uniche e/o definitive espressioni sull’argomento. La Rivelazione è un atto di pedagogia divina, in cui Dio si adatta alle possibilità di comprensione umane (synkatàbasis = accondiscendenza) proprio come un genitore si china sulle possibilità dovute all’età del figlio piccolo.
Non che Israele si dovesse considerare un popolo immaturo; al contrario; ma viveva in mezzo agli altri popoli in un contesto difficile di politeismo e di idolatria, per cui la sua visione religiosa aveva bisogno di ben consolidarsi su alcuni punti centrali prima di potersi sviluppare in una fase successiva. C’erano popoli che credevano fermamente alla vita eterna, come gli egiziani, ma in che modo? Come un proseguimento potenziato della vita terrena, con tutti gli agi materiali che si potessero immaginare. Israele doveva purificarsi completamente da questa visione con tutte le sue attrattive (pars destruens), prima di potersi raffigurare la vita eterna come una vita di comunione con Dio.
Giobbe rientra in questo lento processo di purificazione: siamo ancora alla fase iniziale, e il protagonista non si aspetta niente dopo la morte, ha bisogno di giustizia qui ed ora!
Teniamo quindi presente che un versetto, un brano della Bibbia non si può interpretare staccato dal contesto: è importante il contesto prossimo in cui si trova, cioè il brano in cui è inserito, ma è non meno importante il contesto remoto, quello di tutta la S. Scrittura in tutti i suoi sviluppi e in tutte le sue implicazioni. Altrimenti abbiamo una interpretazione fondamentalista nel senso più ottuso, cioè di spiegazione parola per parola senza che se ne colga il senso più profondo.
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