Lettura continua della Bibbia. Deuteronomio: il Cantico di Mosè (cap. 32)

Cantico di Mosè
Foto di falco da Pixabay

Conclusosi il terzo discorso di Mosè, non rimane che passare all’epilogo (cap. 31-34).

Mosè nomina Giosuè suo successore e affida ai leviti la Legge perché la custodiscano e la leggano ad Israele (cap. 31).

 Nel cap. 32 è riportato il Cantico di Mosè, avente per tema la misericordia del Signore che punisce Israele per le sue colpe ma lo salva dai nemici.

Il cap. 33 riporta le benedizioni di Mosè per le tribù di Israele (eccetto Simeone, che in età pre-monarchica era già stato assorbito dalle altre).

 Il cap. 34 narra la morte di Mosè sul monte Nebo, dopo aver contemplato la terra promessa, la sua sepoltura in luogo ignoto, e ne fa l’elogio (v. 10: «Non sorse più profeta in Israele come Mosè, che JHWH conosceva faccia a faccia»).

Il Cantico di Mosè (cap. 32)

Le metafore usate per riferirsi a Dio sonouna delle cose notevoli di questa composizione poetica: in soli quindici versetti (vv. 4-18), troviamo metafore di Dio come roccia, padre, palpebra, aquila e madre. Qual è il loro senso?

Dio come roccia: la metafora principale del Cantico di Mosè

La metafora principale del poema, e non solo di questo, è l’immagine di Dio come roccia. Dopo un’invocazione introduttiva (vv. 1-3), il poema rivisita il primo rapporto di Dio con Israele (vv. 4-14). Dio è “retto” (v. 4), ma Israele è “storto” (v. 5); le azioni di Dio sono “perfette” (v. 4), ma Israele è “imperfetto” (v. 5); Dio è il “Padre” (v. 6), ma Israele è chiamato “non figli (לא בניו)” di Dio (v. 5). Il poeta concretizza questo contrasto con l’immagine di Dio come “Roccia (צור)” nel v. 4.

La parola “roccia” ricorre otto volte nel Cantico di Mosè: cinque volte si riferisce al Dio d’Israele (vv. 4.15.18.30.31), due volte serve da riferimento ironico a divinità straniere (vv. 31.37), e una volta compare in relazione all’olio prodotto da una “roccia silicea” (v. 13). Indica, dunque, realtà diverse.

Ovviamente, riferita a Dio l’immagine della roccia mette in risalto la solidità che corrisponde alla indefettibile lealtà e giustizia di Dio. Nel versetto 15 Dio viene chiamato nei confronti di Israele “la Roccia della sua salvezza”, perché proprio per la sua stabilità una grande roccia può fornire protezione sicura contro i nemici.

Dio come Padre

Nel v. 6, Dio appare come Padre: «Non è lui tuo padre che ti ha creato, ti ha fatto e ti ha stabilito?». L’immagine del Padre in questo caso richiama l’attenzione su Dio come origine di Israele, mentre in altri luoghi biblici evoca altri aspetti come l’amore e la compassione di Dio (Salmo 103,13; Isaia 63,16) o il suo ruolo disciplinare (Proverbi 3,12).

Dio come palpebra

Altra immagine, piccola ma tenera perché esprime la cura che Dio ha di Israele, è quella della palpebra che protegge la pupilla. Dio trovò e si prese cura di Israele nel deserto: «vegliava su di lui, lo custodiva come la pupilla dell’occhio di Dio» (v. 10), come nel Salmo 17,8.

Dio come aquila

Il versetto 11 descrive Dio come un’aquila che veglia sui suoi piccoli: «Come un’aquila che risveglia [o protegge] il suo nido, egli si libra sui suoi piccoli; spiegò le ali, li prese, li portò sulle sue penne». Anche questa metafora sottolinea la protezione e la cura di Dio per Israele durante la fase iniziale della loro relazione. Si noti che l’aquila, in questa immagine, porta i suoi piccoli sopra le ali: nell’immaginario dei popoli antichi l’aquila è l’animale che vola sopra tutti gli altri e quindi non teme pericolo alcuno dall’alto. Teme solo le frecce del cacciatore dal basso, perciò reca i piccoli sopra le ali per far loro scudo col suo corpo… Non è zoologicamente vero, ma è bello.

Dio come madre che allatta

Il Cantico prosegue raccontando come Dio portò Israele nella Terra Promessa e fornì loro il cibo: «Li pose sulle alture del paese e mangiò il prodotto dei campi. Lo allattò con il miele della rupe e l’olio della silice» (v. 13).  Molte traduzioni mascherano la metafora materna rendendo l’ultimo verbo come “nutrire” invece di “allattare”, ma il verbo ebraico yanaq rappresenta chiaramente l’immagine di una madre che allatta il suo bambino appena nato (cfr. Numeri 11,12 e Isaia 43,3-4; 49,15).

Dio come madre che partorisce

L’immagine viene confermata nei versetti successivi in cui la benevolenza di Dio cede il posto all’ingratitudine di Israele. Poiché Israele ha adorato le divinità straniere, l’autore del Cantico lo accusa: «Hai trascurato la Roccia che ti ha generato; avete dimenticato il Dio che ti ha partorito» (v. 18). Mentre nel v. 6 campeggia l’immagine di Dio come padre, questa seconda metafora descrive Dio come una madre che sopportò il travaglio per dare alla luce suo figlio, per cui il rifiuto di Dio da parte di Israele è ancora più negativo.

Perché così tante metafore?

Perché passare nell’arco di soli quindici versetti dall’immagine di Dio come una roccia stabile a quella di un padre, poi di una palpebra, un’aquila, infine di una madre che allatta, una madre in travaglio? Perché non scegliere un’unica metafora efficace? Perché nessun paragone da solo può bastare ad incapsulare tutto quello che c’è da dire su Dio e sul suo rapporto con l’uomo. Nessuna immagine può avere il monopolio, neppure quella, che a noi sembra tanto ovvia, di Dio come Padre.

Parlando di Dio usiamo inevitabilmente un linguaggio analogico, cioè ne parliamo per analogia con la nostra esperienza umana: ma se Dio è Dio è molto di più, in un modo inimmaginabile. Paradossalmente, l’immagine serve a colmare l’abisso tra il conosciuto – il nostro mondo – e l’inimmaginabile, l’ignoto, il Divino. E per fare questo una sola metafora non basta….