Caino e Abele: la fraternità uccisa

La famiglia di AdamoCronaca Mondiale o Cronaca di Norimberga di Hartmann Schedel – Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=899087

Subito dopo la storia dei due primi coniugi, questa storia (dovuta alla stessa penna dell’autore jahvista) della prima coppia di fratelli, Caino e Abele, mostra come il peccato porti alla più profonda frattura tra uomo e uomo, fra i nati dalla stessa madre. Il peccato distrugge l’unità e apre la strada a invidie, gelosie, sopraffazioni, violenze, morte.

È una storia-tipo quella di Caino e Abele. Ovvero, una storia che come abbiamo detto conserva un ricordo antichissimo di qualche arcaico delitto. Rispecchia un fatto, plausibilissimo, possibilissimo, e al tempo stesso emblematico di quanto è scritto nel cuore dell’uomo.

La storia di Caino e Abele potrebbe anche essere nata al di fuori del racconto della prima caduta, cui successivamente potrebbe essere stata collegata dall’esterno. Esprime l’archetipo della prima invidia, della prima violenza fisica sull’uomo, della prima morte. Diviene, così, emblema di ogni violenza che da allora ha funestato le famiglie degli uomini. I miti parlano spesso di fratelli antagonisti, di cui uno deve morire, fondatori di civiltà; non occorre andare molto lontano per trovare Romolo e Remo. Una coppia famosa di fratelli antagonisti della cultura greca è rappresentata da Eteocle e Polinice figli di Edipo (per l’incesto con la madre di lui Giocasta) che vogliono entrambi regnare sul trono del padre e finiscono per uccidersi a vicenda. Posti sul rogo, l’odio tra fratelli è talmente persistente che la fiamma che li deve consumare si divide in due. Ma anche nella mitologia egiziana Osiride viene ucciso da Set suo fratello.

Si potrebbe però vedere nell’episodio anche un riflesso delle vicende della società arcaica, in cui la cultura pastorale, nomadica (rappresentata dal pastore Abele) viene superata e sopraffatta da quella contadina, sedentaria, (raffigurata in Caino coltivatore di campi).

Le nascite e i nomi

Eva, partorendo Caino, sembra voler sostituire, con il figlio, Adamo, che non viene neppure nominato. Caino significa fabbro in quanto antenato di coloro che forgiano le armi. Ma il testo collega il suo nome a Qanah = acquistare, forse con l’allusione al possesso del suolo da parte sua. Inoltre, Qanna’ significa geloso e ne definisce la caratteristica morale. In ogni caso, si tratta di un nome che suggerisce possesso, forza, predominanza. Eva esulta per aver fatto un sì bel capolavoro.

Di Abele invece viene detto semplicemente che venne aggiunto, quasi fosse un di più nemmeno tanto desiderato. Eva non lo chiama neppure suo figlio, ma fratello di Caino. Non se ne spiega nemmeno il nome, che però è tragico o derisorio, in quanto significa vanitàsoffio (come nel Qoheleth: Vanità delle vanità…). Non sembrerebbe piacere neppure alla madre. Ma chi è disdegnato dagli uomini è amato da Dio…

Caino e Abele: la fraternità negata

Le offerte di Caino e Abele. Mosaici del duomo di Monreale. Di Sibeaster – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4515670

I figli di Eva crescono, le loro strade si dividono. La fraternità è negata.

All’inizio del racconto sarebbe sbagliato contrapporre il buon Abele al malvagio Caino. Caino è il primogenito, il più apprezzato dalla madre, il più forte, privilegiato da Dio. È il primo ad offrire in sacrificio i frutti del suo lavoro. Ma non ha offerto le primizie, come richiederà poi la legge mosaica, o almeno queste non vengono menzionate: anzi, fa la sua offerta alla fine dei giorni, cioè alla fine della stagione, quando ormai è sicuro di quanto ha raccolto. Abele, invece, offre i primogeniti del gregge e il grasso, cioè le parti migliori.

Dopo dunque che i fratelli si sono differenziati intraprendendo lavori diversi e con diverso gradimento da parte della madre, avviene adesso un’ulteriore differenziazione anche sul piano religioso: offrono sacrifici diversi, e non pensano nemmeno a celebrare insieme l’offerta.

Dio si volge verso il disprezzato dagli uomini, Abele, che diviene a lui gradito. I commentatori ebrei spiegavano: «Abele con le sue offerte offriva anche se stesso».

L’offerta di Caino, invece, si riduce a vuota formalità. Egli risponde all’elezione con la durezza del cuore e la ripulsa della voce di Dio. Caino non è più gradito con la sua offerta, ma non per questo è respinto, rifiutato. Anzi, Dio lo segue nella sua irritazione e nel suo abbattimento.

Libero arbitrio

Dio lo ammonisce per il suo bene, lo richiama a sé: non deve forse tenere alta la testa se agisce bene? Se invece sente l’attrazione della colpa, sappia che questa si apposta alla sua porta come un robez, ma Caino lo può dominare…

Il peccato, insomma, non è una parte dell’uomo, gli è esterno, non lo costringe.

Dio chiarisce a Caino che davanti a lui sta la scelta fra il bene e il male, e non è una scelta obbligata, ma libera. Abbiamo qui il primo insegnamento esplicito del libero arbitrio che è nel potere dell’uomo esercitare. Il peccato è come una bestiaccia accovacciata alla porta, all’esterno, pronta ad entrare, ma la porta si può e si deve tenere chiusa, la bestia accovacciata si può respingere… L’immagine usata è molto vivace, ma per capirla meglio devo spiegare che cosa è un Robez.

Il Robez (v. 7)

Il v. 7 si traduce letteralmente:

«Forse che, se tu agisci bene, non c’è elevazione (se’eh) (del volto),

e se non agisci bene, alla porta c’è il peccato (chatta’th, femminile) accovacciato (robez, maschile)

e verso di te è il suo (maschile) desiderio e tu lo dominerai?».

Come vedete, nel testo originale c’è un errore grammaticale: il nome chatta’th è femminile, il participio che gli è attribuito è declinato al maschile. Come se si scrivesse: la colpa è accovacciato alla porta. È un errore anche in ebraico; ma se c’è ci sarà un motivo.

Forse l’agiografo ha pensato al Rabisu, un demone del mondo accadico che stava in agguato appiattito alla porta della casa per introdurvisi furtivamente:

«Essi penetrano di casa in casa,

nessuna porta può chiuderli fuori,

nessun chiavistello li può trattenere,

essi scivolano attraverso le porte a guisa d’un serpente»

(citato da “Biblica” 16 [1935] 431-442).

Questi spiritelli, se si fosse aperto loro uno spiraglio, sarebbero sgusciati nella casa e avrebbero combinato un sacco di guai, senza aver modo di cacciarli. L’unica possibilità di salvaguardarsene era quella di non aprire loro la porta… Ma Caino non ascolta l’ammonimento.

Il silenzio che uccide

Caino e Abele: il silenzio che uccide
Caino uccide Abele. Mosaici del duomo di Monreale. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3816386

L’omicidio commesso da Caino ai danni di Abele è divenuto il prototipo biblico di ogni violenza. Siamo per la prima volta di fronte al problema della sofferenza, qui una sofferenza autoindotta, perché è causata da una scelta di violenza. Dio infatti, che non ha abbandonato Caino a se stesso ma ha continuato a seguirlo con la sua parola, non arriverà a fermargli la mano: lo lascerà libero perché lo ha creato libero, ed è così che il male dilagherà nel mondo. Dio parla ma Caino tace, e il suo sarà un silenzio che uccide. Caino infatti non parlerà neppure col fratello. La stessa Parola di Dio affonda nel suo silenzio.

Le ragioni del crimine nel Midrash

Mentre noi siamo propensi a considerare Caino come l’aggressore e Abele come la vittima innocente, il Midrash ci propone altre idee, scavando nelle possibili motivazioni del delitto ed ammettendo che Abele stesso abbia concorso ad odiare e a farsi odiare.

E le ragioni dell’odio, come sa ogni buon giallista o lettore di gialli – ammesso che di odio si trattasse – sono sempre le solite, secondo il Bereshit Rabbah: ovvero, la contesa

  • per i beni di questo mondo (terra e vestiti di pelli);
  • per il diritto a una stessa donna (sia Caino sia Abele avrebbero avuto delle gemelle);
  • per il luogo su cui costruire il Tempio (ragione teologica).

Possesso, amore, fanatismo religioso: tre cause di divisione, di odio e di lotta sempre valide nella storia del mondo.  

Queste ipotesi midrashiche nascono fra le righe del non detto, come spesso accade. Infatti, il testo ebraico recita semplicemente:

«E disse Caino ad Abele suo fratello quando erano nel campo».

E disse… ma che cosa disse? Manca il complemento oggetto, che sarebbe obbligatorio in ebraico come in italiano. Il Midrash cerca di colmare la lacuna interpretando il non detto.

Il testo del Midrash (Bereshìt Rabbà 22, 15)

Di che cosa discutevano? Dicevano l’un l’altro: «Orsù dividiamoci il mondo». Caino prese i terreni beni immobili ed Abele i beni mobili.

Uno disse: «La terra sulla quale stai è mia!». L’altro: «Quello che tu vesti è mio!».

Uno disse: «Toglilo (il vestito)!».

L’altro disse: «Vola!».

Conseguenza di ciò: «E si levò Caino contro suo fratello Abele e lo uccise».

[Invece] Rabbì Jeoshùa di Sachnìn a nome di Rabbì Levì disse: «Tutti e due avevano preso i beni immobili e tutti e due avevano preso i beni mobili. E di cosa discutevano? Uno diceva: «Sul mio territorio verrà costruito il Santuario». L’altro diceva: «Nel mio territorio verrà costruito il Santuario», come è detto: «e fu quando furono nel campo» e per campo non si intende altro che il Santuario, come è scritto (Mic 3, 12): «Sion sarà arata come campo».

A seguito di ciò: «E si levò Caino contro suo fratello e lo uccise».

La colpa di Caino

Naturalmente, il Midràsh risponde solo ad un problema letterario: cosa disse Caino ad Abele, visto che il testo non lo dice? La risposta midrashica è allegorica e non letterale, perciò non si riferisce tanto a Caino e Abete quanto a tutti gli uomini di ogni epoca che nelle loro problematiche potrebbero seguire il loro esempio.

La colpa di Caino, in questo caso, potrebbe essere stata quella di essere… più veloce del fratello. «Disse rabbi Jochanan: essendo Abele più forte, aveva atterrato Caino. Allora questi gli disse: siamo gli unici figli al mondo, se mi uccidi che dirai a nostro padre? Abele si impietosì, e così Caino si alzò e lo uccise» (22,8).

Ma vediamo, invece, il senso che si può dare alla lacuna del testo.

Il testo ebraico

Il testo ebraico, come abbiamo detto, presenta una sospensione: riferisce che «Caino disse», ma non riferisce che cosa disse. Parla, ma non dice niente.

Le antiche traduzioni hanno inteso questo verbo come fosse legato a quel che segue: secondo i LXX Caino ha detto al fratello «Andiamo in campagna», secondo la Volgata «Egrediamur foras», secondo la Peshitta (siriaca) «Andiamo all’aperto». Può darsi che questi traduttori avessero il supporto di antiche versioni testuali che si esprimevano in tal senso. Ma nel Testo Masoretico, cioè il testo ufficiale ebraico, il complemento oggetto, o la proposizione oggettiva, manca. Quindi, c’è un silenzio.

Il silenzio che uccide

La mancanza di dialogo può uccidere? Eh sì, è quello che sta accadendo nella nostra storia. Non si parla, si aggredisce, ci si difende, si uccide. Certo che per parlare bisogna essere in due. Il rifiuto di rapportarsi con l’altro nelle sua realtà più profonda, la negazione della reciproca conoscenza, la muta e mutua indifferenza uccidono. Caino col suo silenzio ha già ucciso il fratello in cuor suo prima ancora di alzare la mano su di lui. Cosa che presto farà.