Prendiamo spunto da un’immagine a stampa esposta al museo degli Organi di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, raffigurante la visione di Daniele nel cap. 7 del libro omonimo.
Benché il testo sia scritto in tedesco e in grafia gotica per di più, per chi ha un minimo di rapporto con la S. Scrittura l’immagine è eloquente: rappresenta Daniele, qui qualificato «profeta» (in realtà è un veggente apocalittico), nella fossa dei leoni, episodio narrato nel cap. 6 del libro che porta il suo nome.
I leoni, stilizzati, sono ben riconoscibili. Più enigmatici ad un primo sguardo, invece, i quattro animali presenti in alto a destra e sinistra del suo capo aureolato: un leone alato, un orso, un leopardo con quattro teste e quattro ali, una bestia indefinibile con quelle che dovrebbero essere dieci corna. Troppo sbrigativamente alcuni classificano la terza bestia come un’idra, non tenendo conto del contesto biblico dell’illustrazione. Di cosa si tratta, dunque?
Il libro di Daniele
Un libro tutto particolare Il libro di Daniele, uno scritto sui generis, che presenta diverse singolarità.
Crocevia di culture e di lingue
Prima di tutto, è l’unico libro della Bibbia ad essere trilingue, perché ci è giunto scritto in parte in ebraico (cap. 1; 8-12), in parte in aramaico (cap. 2-7: il sogno della statua, i tre fanciulli, il sogno del grande albero, la scritta misteriosa, Daniele nella fossa dei leoni, la visione del Figlio dell’uomo), con espansioni in greco (preghiera di Azaria e cantico dei tre fanciulli, la casta Susanna cap. 13, Bel e il drago cap. 14): evidentemente si è trovato ad essere composto all’incrocio di più culture, quando la tradizione biblica ebraica si è incontrata con il mondo politico persiano la cui lingua franca era l’aramaico, e poi con il mondo ellenistico delle colonie mediterranee.
Pluralismo letterario
In secondo luogo, al pluralismo linguistico corrisponde in certo modo un pluralismo letterario: infatti, il libro risulta composito, comprendendo all’interno delle parti midrashiche una intera apocalisse (cap. 7-12), l’unica apocalisse canonica precristiana.
Il capitolo 13, originariamente, era stato posto all’inizio del libro, in quanto presenta un primo approccio con la figura di un Daniele giovinetto: in questo modo, avremmo avuto una cornice più ampia in lingua greca, una seconda cornice più ristretta in lingua ebraica, e al centro il materiale in lingua aramaica, il quale a sua volta presenta una struttura concentrica il cui cuore è la preghiera di Nabucodonosor in 4,31-32:
«Io Nabucodònosor alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo; lodai e glorificai colui che vive in eterno, la cui potenza è potenza eterna e il cui regno è di generazione in generazione. Tutti gli abitanti della terra sono, davanti a lui, come un nulla; egli dispone come gli piace delle schiere del cielo e degli abitanti della terra…».
Questo procedimento per successive «inclusioni» ci dice quanto sia elaborata la struttura letteraria dei testi biblici che potrebbero apparire, ad una lettura superficiale, molto ingenui. Inoltre, l’epoca di composizione è quella della persecuzione religiosa di Antioco IV Epifane, ovvero il II secolo a.C. e non il VI come nella finzione letteraria. Lo scritto retrodata al tempo dell’esilio babilonese le dolorose vicende di persecuzione religiosa di cui gli ebrei palestinesi furono vittime durante la dominazione dei seleucidi. Il canone ebraico, infatti, non lo annovera tra i libri profetici (Nevi’im) legati a tempi storici, ma fra gli scritti (Kethuvim) di carattere non necessariamente storico.
La cornice narrativa
La cornice narrativa del libro di Daniele, proprio come quella del libro di Giobbe, ha uno scopo rassicurante: Dio non abbandona il giusto nel momento della prova, ma viene in suo aiuto, anche se, dirà poi il cap. 12, solo apparentemente la morte ha avuto il sopravvento – testo, questo, che rappresenta la più antica professione di fede esplicita nella resurrezione finale.
Gli episodi narrati insistono tutti sul medesimo concetto: chi si mantiene fedele non deve temere niente, perché gli stessi padroni della scena politica ne avranno rispetto, e se le ragioni di stato condurranno alla persecuzione Dio spegnerà le fiamme che dovrebbero arderlo e chiuderà le fauci dei leoni che dovrebbero divorarlo.
Ancora più coloriti gli episodi narrati nella parte greca, dal sapore assai moderno e non privi di humour. A difendere la casta Susanna dalle imputazioni dovute alle voglie degli iniqui vecchioni sorge un giovane Daniele che dimostra la loro colpevolezza con la tecnica infallibile del tenente Colombo. Poiché il lettore sa già come si sono svolti i fatti – il narratore glielo ha detto chiaramente -, il bello del racconto consiste nel poter seguire il ragionamento con cui il detective prova la nefandezza dei due: si contraddicono su un particolare irrilevante, a maggior ragione hanno mentito sull’essenziale.
Ancora maggiore l’ironia negli esilaranti racconti che seguono: uno di questi, riferito al crimine dei sacerdoti che nottetempo entrano nel santuario per consumare le offerte simulando la discesa del dio, equivale già a quello che sarà il classico mistery della camera chiusa: come ha fatto il delinquente a commettere il crimine ed a volatilizzarsi in una stanza chiusa dall’interno? Semplice: andate a leggere Dan 14,1-22…
Daniele veggente apocalittico
Non un profeta dunque, ma un saggio, e nella parte centrale del libro un veggente, beneficiario di visioni simboliche con cui si rivela («apocalisse» vuol dire infatti rivelazione) il significato degli eventi storici, cioè si legge la storia passata, presente e futura. Questa rivelazione avviene per immagini, spesso interpretate, nelle apocalissi, da un apposito personaggio che può essere un angelo o una grande figura del passato.
Gli animali sono importanti nelle visioni di Daniele e non solo, e ci limiteremo, qui, a seguire questo filone. Nel capitolo 7 del libro di Daniele, il veggente riferisce di aver potuto contemplare, in una visione notturna, quattro grandi bestie salire dal Mare Grande, ossia il Mediterraneo. La prima è un leone alato, la seconda un orso; la terza, simile ad un leopardo, ha quattro teste e quattro ali; la quarta, spaventosa, indescrivibile, ha denti di ferro e dieci corna e divora, stritola e schiaccia tutto ciò che incontra.
Nel contesto del capitolo è chiaro che le quattro bestie sono simbolo di quattro re e di quattro imperi che hanno dominato Israele fino quasi a distruggerlo, ma sono destinati a perire; in contrapposizione ad essi viene con le nubi del cielo uno, simile ad un figlio di uomo, che avrà in eterno potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). La visione degli imperi «bestiali», che disumanizzano l’uomo, viene contrastata con la visione del popolo dei santi dell’Altissimo, rappresentato in forma umana perché non aliena la persona ma la umanizza.
Per ora diciamo sbrigativamente che il leone alato raffigura Babilonia, l’orso la potenza dei Medi, la quarta bestia sarà la forza inarrestabile dell’impero macedone, mentre il leopardo con quattro teste e quattro ali rappresenta, evidentemente, i persiani. Li esamineremo uno ad uno.
(Continua)