
Antico Testamento… Un pregiudizio diffuso tra molti contrappone le antiche Scritture al Nuovo Testamento, motivando questo atteggiamento con un preteso contrasto fra il Dio collerico e vendicativo dell’Antico Testamento con il Padre amorevole di Gesù Cristo. C’è qualcosa di vero in questo? Sono veramente così diverse queste due parti della Scrittura?
Innanzi tutto, il contrasto si fa stridente solo se la conoscenza che ne abbiamo è estremamente superficiale. È vero che c’è molta durezza nell’Antico Testamento, e dobbiamo capirne la ragione; ma vi è anche tanta tenerezza. Fece scalpore papa Luciani quando parlò della maternità di Dio, ma in realtà non stava dicendo niente di nuovo, anzi si limitava a riportare alla luce qualcosa di molto antico.
Antico Testamento: le immagini dell’amore di Dio

La tenerezza del pastore
Molto dolce è l’immagine del Pastore che si prende cura delle sue pecorelle, le conduce ai pascoli migliori, all’acqua fresca (Salmo 23), le difende, le ricerca, le raduna, le vezzeggia, porta gli agnellini in seno (Is 40,11). Questa è una delle tante immagini di tenerezza diffuse nell’Antico Testamento e riprese nel Nuovo.
La passione dello Sposo
Altra immagine di bontà è quella sponsale: Dio ama il suo popolo come lo sposo ama la sposa, e mantiene il suo amore anche quando questo è un amore ferito dal tradimento. I primi tre capitoli del libro di Osea (VIII secolo a.C.) sono dedicati interamente a questa immagine di amore sponsale che sarà ripresa nei libri successivi sia dell’Antico che del Nuovo.
L’amore del Padre
Ovvia per noi l’immagine paterna, che naturalmente doveva essere dominante in una società patriarcale. È un’immagine di rigore, di severità, ma anche di giustizia e di clemenza. Ma c’è di più.
La dolcezza della Madre
Non è raro che nell’Antico Testamento Dio si rivolga all’uomo con la tenerezza di una madre. Così dice il Dio di Israele in Is 49, 15: «Si dimentica una donna del suo lattante, cessa di provare tenerezza per il figlio delle sue viscere? Anche se queste si dimenticassero, io non ti dimenticherò». E in Is 66,12-13: «Voi succhierete e sarete portati in braccio, sulle ginocchia sarete accarezzati. Come un uomo che sua madre consola, così io vi consolerò».
Il fremito delle viscere

Se c’è una definizione teorica di Dio, nell’Antico Testamento, non è quell’«Io Sarò Colui che Sarò» di Es 3,14, tradotto grecamente «Io sono colui che È», che però è soltanto un nome di presenza («Io Sarò colui che ci sarà sempre per voi»). La definizione della natura di Dio si trova piuttosto in Es 34,6 quando per sostenere Mosè in un momento di difficoltà Dio gli rivela la sua Gloria proclamando il suo Nome e i suoi attributi: «Dio misericordioso e ricco di grazia, lento all’ira e grande in benevolenza e fedeltà».
Misericordia, grazia, benevolenza e fedeltà sono le coordinate dell’identikit divino. Volete di più? C’è anche di più: la parola misericordia, e il verbo che esprime l’aver misericordia, l’ebraico racham, viene dalla radice di rechem che significa utero, viscere materne. Dio ama con le viscere di una madre! Così pure, nei vangeli, quando si legge in traduzione che Gesù «si commosse», nel testo greco si trova il verbo «splanchnizomai» che ha lo stesso significato, «sentir fremere le viscere»…
Lentezza all’ira
Continua è, nella Scrittura, la considerazione della grandezza dell’amore divino e della lentezza con cui viene all’ira.
Nm 14,18: “Il Signore è lento all’ira e largo in misericordia, perdona la colpa e la trasgressione”; Ger 15,15: “nella lentezza della tua ira non lasciarmi perire”; Gioele 2,13: “Egli è benigno e misericordioso, lento alla collera e ricco in bontà, e si ricrede del male!”; Giona 4,2: “sapevo che tu sei un Dio pietoso e misericordioso, longanime e di molta grazia e che ti penti del male!”; Nah 1,7: “Il Signore è buono per chi confida in lui, una fortezza nel tempo dell’assedio. Il Signore conosce chi si rifugia in lui”-
Sal 86,15: “Ma tu sei, o Signore, un Dio pietoso e pronto alla compassione, lento all’ira e ricco in misericordia e fedeltà”; 103,8: “Benevolo e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande in misericordia”; 145,8: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e grande in misericordia”; Neh 9,17: “tu sei un Dio di perdono, clemente e misericordioso, lento all’ira e grande nella benignità! Tu non li hai abbandonati”).
Una curiosa espressione
Curiosa è l’espressione usata per indicare questa caratteristica divina, la lentezza all’ira: alla lettera, «lento all’ira» suonerebbe come «lungo di naso». È un’immagine strana, ma rappresenta la pazienza: perché, nell’immaginario semitico, l’ira si accende fra gli occhi (lo strumento che collegano l’uomo con la realtà esterna), percorre il naso, sbuffa ed esplode dalla bocca. Se fate caso, gli animali che hanno il muso lungo sono fra i più miti, pazienti: pecore, mucche, asini; mentre i carnivori, collerici, aggressivi (pensiamo al leone), hanno il muso più schiacciato, la bocca più vicina agli occhi e più prossima ad esplodere. Beh, può darsi che non sia così, ma è un modo arcaico di figurarsi la pazienza, avere il naso lungo e dare tempo all’ira di sbollire nel percorso prima che giunga a prorompere dalla bocca.
Antico Testamento: il Dio del perdono
Misericordia, grazia, bontà, benevolenza, fedeltà non sono mai dissociate, nella Bibbia, dal pensiero di Dio. Se c’è la punizione, c’è anche, sempre pronto, il perdono. Cfr. Sal. 103,8-14:
«Benevolo e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande in misericordia;
non dura per sempre la sua contestazione,
non conserva in eterno la sua ira.
Non ci ha trattati secondo i nostri peccati;
non ci ha ripagati in base alle nostre colpe.
Sì, com’è alto il cielo in confronto della terra,
così è grande la sua misericordia
sopra quelli che lo temono;
come l’oriente dista dall’occidente,
tanto allontanò da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà per i suoi figli,
così il Signore ha pietà per quanti lo temono.
Sì, egli conosce di che siamo fatti,
egli si ricorda che siamo polvere».
Il linguaggio della Bibbia è analogico
Quindi il Dio della Bibbia ha per l’uomo i sentimenti del pastore, dello sposo, del padre, della madre? In senso analogico, sì. Si tratta sempre di un modo umano di esprimere una Realtà che va al di là della nostra comprensione: se potessimo comprendere totalmente Dio, quello non sarebbe Dio ma una materializzazione dei nostri sogni; Dio, se è Dio, va al di là, è Ineffabile, non si può esprimere compiutamente in parole umane. Noi possiamo comprenderlo e parlarne solo attraverso la nostra limitata esperienza.
Una sentenza rabbinica, molto vera, è: «Dio parla il linguaggio degli uomini». Perciò, parlare di Dio come padre e come madre è sempre un parlare per approssimazione, per quella approssimazione che più si avvicina alle nostre possibilità di comprensione. La nostra visione di Dio è necessariamente antropomorfica, anche se usiamo le categorie più astratte ce lo raffiguriamo pur sempre secondo modalità umane. Tuttavia la Bibbia, scrive Abramo Heschel, usa il linguaggio antropomorfico per comunicare il non essere antropomorfico di Dio (Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1993, p. 77). Dio quindi è padre, madre e assai di più…
Un articolo introduttivo QUI.
Il linguaggio dell’ira: l’analisi di Abramo Heschel
Ed ecco che in questo linguaggio analogico, antropomorfico, rientrano anche le parole dell’ira, che gli uomini capiscono anche troppo bene; anzi, in un certo senso ne hanno bisogno, per poter comprendere la radicalità dell’amore divino.
Quante volte nell’Antico Testamento (ma anche nel Nuovo, se fate attenzione) Dio si dimostra duro, irato, minaccioso? È innegabile. Ma qui dobbiamo porci il problema: qual è il vero significato dell’ira di Dio, questo attributo che in epoca contemporanea ci stupisce e ci infastidisce tanto?
Il fatto è che Dio è paziente, ma la sua pazienza non va scambiata per apatia, e la misericordia non è acquiescenza: un genitore, un educatore devono anche saper dire di no, devono anche mostrarsi inflessibili se vogliono il bene del figlio, dell’alunno. Arrendersi significherebbe volerne il male.
Due trabocchetti
Per affrontare questo difficile e delicato tema, non c’è niente di meglio che riferirsi letteralmente al pensiero di un grande studioso ebreo contemporaneo, Abramo Heschel (nel già citato Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1993). Innanzi tutto, lo studioso mette in guardia dal cadere in due eccessi opposti, nei confronti del Dio veterotestamentario, che sono due trabocchetti, da una parte l’umanizzazione di Dio e dall’altra l’anestetizzazione di Dio.
Se Dio si antropomorfizza, si riduce ad uomo, se ne fa un semplice alleato che ci proteggerà qualunque cosa facciamo: «L’idea dell’ira divina spezza questo orribile compiacimento». Ma se l’idea di Dio si anestetizza, si riduce a un’astrazione indifferente, «a un mistero che non avrebbe niente da dire all’uomo» (pag. 76). Il Dio della rivelazione biblica invece è sempre vicino all’umanità, se ne prende cura con sollecitudine, è il Dio del pathos, appassionato – se così si può dire – della sua creatura. L’ira di Dio è precisamente un aspetto, anzi l’espressione di questa continua cura e sollecitudine, che non abbandona l’umanità al caso, al caos, ma si indigna per l’indifferenza in cui è tenuta, per le ferite che riceve da chi ama. In sintesi: l’ira di Dio non è il contrario dell’amore, è il contrario dell’indifferenza. È un modo che Dio usa per far comprendere quanto siamo importanti per lui.
N.B.: se non volete dilungarvi, passate direttamente alle conclusioni. Per un approfondimento sul pensiero di Abramo Heschel, cliccate QUI.

L’ira di Dio è il contrario dell’indifferenza
«Non è mai un’esplosione spontanea, ma una reazione occasionata dalla condotta dell’uomo… volontaria e tenace, motivata dalla sollecitudine per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» (p. 85).
«L’ira di Dio non può essere trattata in modo isolato, ma come un aspetto del pathos divino, come uno dei modi usati da Dio per rispondere all’uomo… Il pathos include l’amore, ma lo oltrepassa. Il rapporto di Dio con l’uomo non è un’indiscriminata effusione di bontà, immemore della condizione e dei meriti del destinatario, ma un’intima accessibilità, che si manifesta nelle sue reazioni sensibili e multiformi. Il termine “ira” è appesantito dalle connotazioni di rancore, temerarietà e iniquità. Il termine biblico invece denota quella che noi chiamiamo giusta indignazione, provocata da ciò che è considerato vile, vergognoso e peccaminoso; è impaziente con il male, è “un moto dell’anima che sale per reprimere i peccati”» (p. 87).
L’ira di Dio non è incompatibile con la sua perfezione
Non è incompatibile con la perfezione divina. «È insito nella natura dell’uomo mortale che quando è in uno stato d’ira non sia allo stesso tempo in uno stato di conciliazione, e quando è in uno stato di conciliazione non è contemporaneamente in uno stato d’ira. Il Santo invece, benedetto Egli sia, quando è adirato è pronto alla conciliazione anche nel mezzo dell’ira, come è detto: Perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita» (Midrash Tehillim del Sal 30,6).
«La collera di Dio è una lamentazione. Tutta la profezia è una grande esclamazione; Dio non è indifferente al male! Egli se ne preoccupa continuamente; è personalmente toccato da ciò che l’uomo fa all’uomo. Egli è un Dio del pathos. Questo è uno dei significati dell’ira di Dio: la fine dell’indifferenza! Il messaggio della collera effettivamente è spaventoso. Ma coloro che sono stati spinti sull’orlo della disperazione alla vista di ciò che la malizia e la crudeltà possono fare, troveranno conforto nel pensiero che il male non è la fine, che il male non è mai l’apice della storia» (p. 88).
L’ira di Dio è finalizzata alla propria cessazione
«Un aspetto essenziale dell’ira, proclamato dai profeti, è il suo carattere contingente e non definitivo». (p. 89 s.).
«Lungi dall’essere un’espressione di “petulante spirito vendicativo”, il messaggio dell’ira implica un invito al ritorno e alla sua salvezza. L’invito dell’ira è un invito a cancellare l’ira. Non è un’espressione di eccitamento irrazionale, improvviso e istintivo, ma una libera e deliberata reazione della giustizia di Dio a ciò che è sbagliato e malvagio. Per quanto intensa sia, può essere stornata dalla preghiera. Non esiste ira divina fine a se stessa… (p. 90)… il suo è un significato strumentale: produrre il pentimento; il suo scopo e la sua consumazione è la sua stessa scomparsa» (p. 91).
L’ira di Dio è uno strumento dell’amore
«L’ira di Dio non è un attributo fondamentale, ma una condizione transitoria e una reazione. È un mezzo per raggiungere “gli intenti della sua mente”. Per quanto inscrutabile possa apparire al popolo, “alla fine dei giorni comprenderete tutto chiaramente” (Ger 23,20)» (p. 94).
«Cfr. Is. 26,20: “Va’, popolo mio, entra nelle tue camere e chiudi i battenti dietro a te! Nasconditi per un istante, finché non sia passata la collera”; 54,7-8: “Ti ho abbandonata per un breve istante, ma ti riprenderò con grande compassione. In un eccesso di collera ho nascosto per un istante la mia faccia da te, ma con eterno amore ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore”;
Sal 30,6: “poiché un momento dura la sua ira, ma per tutta la vita il suo favore”; Is 57,16-19: “Poiché io non faccio lite in eterno, non mi irrito per sempre, se no verrebbe meno al mio cospetto lo spirito e le anime che ho creato. Per il suo iniquo guadagno mi sono irritato, nascondendomi, l’ho percosso nella mia irritazione; ma egli, ribelle, camminò per le vie del suo cuore. Ho visto le sue vie, ma io lo guarirò, lo guiderò, gli concederò il conforto. A quanti dei suoi sono afflitti pongo sulle labbra la lode; pace, pace a chi è lontano e a chi è vicino, dice il Signore. Io lo guarirò”.
Ger 3,12: “Ritorna, ribelle Israele, oracolo del Signore, non rivolterò la mia faccia da voi, perché io sono pietoso. Oracolo del Signore: non conservo sdegno in perpetuo”; Ger 31,20: “È, dunque, un figlio prezioso per me Efraim, o un bimbo delizioso, ché ogni volta che parlo contro di lui lo ricordo sempre teneramente? Per questo si commuovono le mie viscere per lui, ho di lui grande compassione!». Oracolo del Signore”».
L’ira di Dio è transitoria
«Il contrasto tra l’ira che dura un momento e l’amore che è eterno trova espressione nelle seguenti parole profetiche (p. 96 s.): “In un eccesso di collera ho nascosto per un istante la mia faccia da te, ma con eterno amore ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore” (Is 54,8); “Il Signore passò davanti a lui e gridò: Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione” (Es 34,6-7)».
L’ira di Dio è espressione della sua sollecitudine
«Il segreto dell’ira è la sollecitudine di Dio. Non c’è nulla di più grande che la certezza della sua sollecitudine. L’ira causa distruzione e afflizione, ma non disperazione. La risposta del profeta non è solo l’accettazione ma anche la gratitudine. Questa è l’apice della fede: “Tu dirai in quel giorno: «Ti lodo, o Signore: tu sei stato adirato contro di me; ma la tua collera si è calmata e mi hai consolato” (Is 12,1) (p. 97).
«L’ira di Dio è una tragica necessità, una calamità per l’uomo e una sofferenza per Dio. Non si tratta di un’emozione che gli dia piacere, ma un’emozione che egli deplora. “Poiché contro il suo desiderio Egli umilia e affligge i figli dell’uomo” (Lam 3,33). “Non sfogherò il bollore della mia ira, non distruggerò più Efraim, perché io sono Dio e non un uomo, sono il Santo in mezzo a te che non ama distruggere!” (Os »11,9) (p. 100).
«L’ira di Dio può arrecare miseria e sofferenza. Ciò non ostante c’è un’agonia più tormentosa e più detestabile: essere dimenticati da Dio. La punizione di essere respinto, abbandonato, rigettato è peggiore che la punizione dell’esilio. Anche l’ira è una forma della sua presenza nella storia. Anche l’ira è un’espressione della sua sollecitudine» (p. 102).
La misericordia non è sentimentalismo o lassismo
«C’è una crudeltà che perdona, così come c’è una compassione che punisce. La severità deve soggiogare ciò che l’amore non può conquistare… Nulla è più dolce al cuore umano dell’amore. Perché l’amore possa operare, però, in certi casi è necessario sopprimere la compassione. Un chirurgo sarebbe un fallito se si lasciasse portare dalla sua naturale compassione alla vista di una ferita sanguinante. Egli deve sopprimere le sue emozioni per salvare una vita, deve ferire per poter guarire. Amore genuino, misericordia vera, non devono essere considerati una concessione a quel semplice sentimento, eccesso della sensibilità, comunemente chiamato sentimentalismo… Lo scopo del sentimentalismo è affievolire la verità e la giustizia. È l’ira divina che dà la forza alla verità e alla giustizia di Dio. Ci sono momenti della storia in cui l’ira sola può vincere il male. L’ira viene proclamata quando la mitezza e la bontà hanno fallito» (p. 103).
Conclusioni
Credo che a questo punto l’equivoco sia dissipato. Se il Dio dell’Antico Testamento mostra spesso un volto irato, non è perché ritiri il suo amore: è perché a questo amore rimane fedele, e ad esso vuole richiamare, anche con parole forti, a qualunque costo. E nell’antichità, biblica o non, i popoli erano abituati ad un linguaggio molto duro… anche questo è un linguaggio dell’amore.
E se ancora ci dà fastidio l’espressione riferita a Dio «che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che castiga [paqad] la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione» (Es 34,7), si pensi innanzi tutto alla sproporzione fra l’infinita durata della grazia (mille generazioni, cioè per sempre) e la breve durata del castigo (tre – quattro generazioni).
Ma si sappia anche che il verbo qui tradotto sbrigativamente con castigare, paqad, in realtà ha in ebraico anche altri significati, tra cui in primo luogo visitare, esaminare: «quando Dio “esamina” questa colpa, è costretto a constatare che produce i suoi effetti sulle generazioni successive» (Wénin A., Le décalogue, révélation de Dieu et chemin de bonheur, «Revue théologique de Louvain», XXV, 2, 1994). Il peccato, se è grave, ha un’ombra lunga, che ricade su chi lo commette ma anche su tutte le sue relazioni.
Perciò, invece di rifiutare o di pretendere di censurare il linguaggio biblico, occorre comprenderlo nel suo contesto. Solo così potremo anche capire quale possa essere il suo significato per il nostro oggi.