Con la condanna alla crocifissione, le speranze dei discepoli sembrano ormai completamente spente. Gesù viene condotto al Golgotha per esservi crocifisso.
Particolari storici
La scena è del tutto realistica, perfettamente coerente con i particolari storicamente noti di questo tipo di supplizio. Anche l’angheria cui è sottoposto un passante, il Cireneo, è realistica: angareuo / costringere è il verbo che esprime il diritto dei soldati di precettare la popolazione civile per svolgere un compito gravoso al loro posto.
La croce
La croce da portare era il patibulum, il braccio orizzontale, mentre quello verticale rimaneva permanentemente confitto nel terreno del luogo dell’esecuzione, in questo caso il Golgotha o Calvario, un rialzo tondeggiante poco fuori le mura di Gerusalemme. Nessun condannato sarebbe stato capace di trasportare l’intera croce. Considerate che l’altezza del palo verticale doveva essere di almeno 4 metri: uno che rimaneva interrato come base, due per contenere l’altezza di una persona con le braccia allungate verso l’alto, un altro metro per distaccare il corpo da terra, se proprio non vogliamo mettere in conto anche un altro metro al di sopra per collocarvi il titulus croci, la motivazione della condanna… e pensate al peso di tutto questo.
Quotidiani dettagli di ordinario supplizio
La prima bevanda che viene offerta a Gesù è un anestetico che le pie donne di Gerusalemme preparavano ai condannati per stordirli, ed è per questo che Gesù la rifiuta. Ma il fiele ricorda a Matteo il crudele accanimento contro il Giusto di Sal 69,22, e l’evangelista non manca di cogliere l’accostamento.
Anche la spartizione delle vesti rientrava nella procedura perché esse spettavano ai carnefici ed è dunque un gesto ordinario sulla normale scena di una esecuzione, ma anch’esso adempie la Scrittura (Sal 22,19).
Altro particolare realistico è il titulus crucis ovvero l’iscrizione recante il capo d’accusa che ha motivato la condanna, ma nel caso di Gesù, redatta troppo concisamente, ne proclama piuttosto la regalità, proprio quello che i capi del popolo avrebbero voluto negare.
I crocifissi con lui sono due lestai, per il governo romano non semplici malfattori, ma, come noi diremmo oggi, partigiani. La crocifissione, invece, come del resto la flagellazione, viene messa quasi tra parentesi, non narrata. Per gli evangelisti non sta lì l’interesse del racconto della passione, nella semplice sofferenza (si pensi, per contrasto, alla Passione di Mel Gibson), ma nella resurrezione che passa attraverso la croce.
Il patibulum
Il luogo dell’esecuzione è pubblico, in modo che la vista dei giustiziati fungesse da deterrente per tutti gli altri: patibulum infatti non deriva da patire, ma da pàtere, ovvero «essere manifesto» (così la nostra «patente» manifesta la competenza a svolgere una attività).
I passanti e i sommi sacerdoti insultano Gesù; persino i crocifissi con lui si uniscono agli insulti. Tra questi due, poi, Luca distinguerà il pentimento di colui che chiamiamo «Buon ladrone», il primo frutto della redenzione colto sull’albero di una croce d’infamia.
Lo sfidano a fare davanti a loro ciò che poi, in effetti, farà: scendere dalla croce. È questa l’ultima tentazione, corrispondente alle prime, la tentazione di evitare il messianismo sofferente e paziente; ma se Gesù vi avesse accondisceso, ora come allora, scendendo infine dalla croce e salvando spettacolarmente se stesso, non avrebbe salvato nessuno e nessuno avrebbe potuto sperare in lui.
L’oscuramento del cielo è un elemento apocalittico: è giunta e si è rivelata la pienezza dei tempi e la natura partecipa al lutto del suo Creatore; altri segni escatologici, il terremoto, le rocce spaccate, i sepolcri aperti, hanno la stessa funzione di sottolineare il trapasso fra il vecchio mondo e quello nuovo che sta sorgendo.
Il racconto di Matteo presuppone già la dottrina della discesa agli inferi di Cristo per liberare gli antichi padri, e infatti l’evangelista ne anticipa il racconto della resurrezione, ma tiene a precisare che sono usciti dal sepolcro solo dopo la resurrezione del Signore, loro con lui.
Il pieno adempimento delle Scritture
Da parte di Gesù, invece, viene un solo grido di derelizione, così apparentemente disperato che Luca lo omette: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Ma il grido è costituito dall’inizio del salmo 22 (v. 2) in cui il lamento dell’orante si risolve poi in un cantico di esultanza che supera anche le barriere della polvere e della morte. Pur sfogando in questo grido tutto il dolore dell’uomo (ed è questa l’unica preghiera in cui Gesù non invoca il Padre, ma «Dio», quasi a sottolineare l’abisso fra il Creatore e la creatura), Gesù si appella al suo Dio, e non abbandona questo rapporto di confidenza in lui.
Elì atta’, come suona in ebraico il grido «Dio mio [sei] tu», è l’invocazione fondamentale dei salmi. Poiché Elia era invocato come speciale patrono dagli agonizzanti, e in aramaico Elìa’ ta’ significa appunto «Elia, vieni» e suona come l’invocazione «Dio mio, tu», questo facilita l’equivoco degli astanti, riportato da Marco e Matteo.
La morte
L’aceto che viene porto a Gesù in realtà è la posca, il vino d’ordinanza dei soldati romani, una bevanda acidula ma dissetante. Questa offerta può rappresentare un gesto di pietà; Matteo vi vede adempiuto Sal 69,22: «Nella mia sete mi fanno bere aceto». È a questo punto che Gesù, avendo adempiuto tutto perfettamente quanto contenuto nelle Scritture a suo riguardo, come esplicitato da Gv 19,30), può emettere lo Spirito (anche questo, quasi in parallelo con lo stesso versetto di Giovanni) e tornare al Padre.
Matteo sottolinea l’evento con sette sconvolgimenti escatologici di cui abbiamo già parlato (le tenebre, il terremoto, la resurrezione dei santi) e tra cui dobbiamo adesso sottolineare lo squarciamento della cortina del tempio, quel velo che divideva il Santo dei Santi dal resto del santuario, l’ultima barriera tra Dio e l’uomo, che adesso non esiste più. Infatti, i soldati romani, pagani, che l’hanno crocifisso, lo riconoscono Figlio di Dio.
La sepoltura
Matteo menziona solo adesso il seguito femminile di Gesù, di cui Luca parla nel suo vangelo fin da 8,1 (Mt in 27,55). L’evangelista introduce le donne galilee soltanto a questo punto nel racconto perché sono esse le testimoni garanti della reale morte e sepoltura di Gesù, come, poi, della sua resurrezione. La loro azione di osservare, anche se da lontano, è espressa col verbo theoréo, che indica una profonda partecipazione all’evento, a mo’ di contemplazione.
Della sepoltura invece si fa carico un personaggio di spicco, il ricco Giuseppe di Arimatea (la tomba del ricco richiama Is 53,9) che ha il coraggio di sfidare le convenzioni chiedendo a Pilato il corpo di un giustiziato. Gli elementi della sepoltura, secondo l’uso giudaico, sono una sindone pulita, un sepolcro nuovo, la pietra enorme che vi viene rotolata davanti; e tutto sembra finire lì, davanti a questo enorme masso. Nessuno aspetta un Messia morto che risorga. Ma le donne sono ancora lì ad osservare.